domenica 23 dicembre 2012

giovedì 13 dicembre 2012

Piano_C, la terza via c'è


A volte uno si sente sfigato, e invece è soltanto un pioniere.

Cristoforo Colombo, quando ha capito di non essere arrivato in Cina, avrà passato almeno cinque minuti della sua vita a dirsi "Belin, che sfiga".

Quando sono rimasta senza lavoro dopo la prima maternità, e pure dopo la seconda, nel vortice di aerosol, pappe e passeggini, ciucci e pannolini, mi sono data ben di più che della sfigata (fate voi le dosi, aggiungete a piacere, che si sa che l'autostima di una donna, italiana per di più, a cavallo del Nuovo Millennio non può certo essere paragonabile a quella di un maschio vissuto nel XV secolo).

Ma ho sempre lavorato. Mi sono ritrovata a seguire un percorso lavorativo a tornanti, con una collaborazione libera dal sacro vincolo dell'orario d'ufficio. E mentre tutti avevano giorni lavorativi, e ferie, e tredicesime, io avevo una scrivania mobile (prima in camera, poi in ingresso, infine in soggiorno, con una geografia variabile come i cambiamenti delle stanze di casa), contratti sempre diversi, un'identità indefinita.
Una che metteva insieme tutto: casa, lavoro, pomeriggi con i figli, serate a lavorare.
Precaria, libera professionista, cosa sarò? Boh. Forse, solo un casino.

Mentre macinavo chilometri, ricevute dell'asilo nido, tate peggio di mine vaganti, lavatrici, pomeriggi al parco, cene preparate a scapicollo, intorno a me vedevo un mondo che era solo un aut aut: placide madri di famiglia dedite esclusivamente ai loro pargoli, e impareggiabili madri-manager con un lavoro full-time, nonni full-time e Tata for Dummies in tasca.

Non è stato facile, per tanti motivi, ma (mi rendo conto ora) anche perché ero sola.

Poi sono successe delle cose. E, in ordine cronologico:
1. Ho aperto un blog. E ho scoperto che l'Italia è piena di imprenditrici e libere professioniste che a) sono state cacciate dal loro posto di lavoro dopo la maternità; b) hanno lasciato per esasperazione il loro posto di lavoro dopo la maternità; c) si sono rotte del lavoro che facevano e hanno lasciato il loro posto di lavoro investendo tempo e vita in altro.
Beninteso, per me una donna che sceglie di lasciare un'azienda, anche per i più sacrosanti motivi, è sempre una sconfitta. Ma di questo ne parliamo un'altra volta.

2. E' iniziata la crisi. E adesso ci sentiamo tutti precari (tiè).
Anche se, non dimentichiamocelo, continua a esserci una buona differenza retributiva tra sentirsi precario ed essere precario.

3. A Milano hanno iniziato a nascere gli spazi di co-working.
Non ci sono mai andata. Il primo era troppo scomodo per me, il secondo troppo macchinoso, il terzo è stato avviato in un anno che è stato un bagno di sangue, e ancora adesso mi chiedo come ho fatto a pagare le tasse, quell'anno lì.

Poi è nato Piano_C, che è un co-working per le mamme - per le donne (e per i papà accompagnati dai bambini). E' un luogo con 12 postazioni di lavoro e sale riunioni che propone uno spazio e servizi di accudimento per bambini 0-3 (non è un asilo nido, non è un tempo per famiglie, boh, non si sa come definirlo, chissà come mai, forse solo perché è una "cosa" innovativa). Quando l'ho visto, davvero, mi si è aperto il cuore. E non solo perché è un bel posto.

Ma perché è proprio quella cosa lì, che serve, alle madri: uno spazio per professioniste che sono in una fase di ridefinizione della loro vita, uno spazio in cui naturalmente incontrarsi, confrontarsi, scambiare idee e professionalità e prospettive, senza il sopracciglio alzato del giovane nerd (che palle questa, una madre!) o l'affanno del professionista (una madre, e pretende pure di rubarmi il lavoro, ma pensa te). Uno spazio in cui la flessibilità oraria del servizio di cura è vera, e non presunta.

Un ghetto? Io credo che da lì le mamme non usciranno con una ricetta per il brodo di verdure in più, ma con idee in più su se stesse, sui propri obiettivi professionali, e anche (perdonate il parolone) nuove possibilità di business. Perché, lasciatemelo dire che sono un'esperta, si possono avere un sacco di (ottime) idee di business: il problema è trovare persone competenti con le quali realizzarle (o almeno provarci), queste idee.

Perché è proprio una cosa, che serve alle mamme libere professioniste: incontrarsi, e investire su di sé, mettersi insieme per credere nelle proprie idee. E non preoccuparsi se nessuno riesce a incasellarle, e neanche loro ci riescono.Che vuol dire che sono delle pioniere, ma sarà bene che lo capiscano subito, e non ci impieghino dieci anni come la sottoscritta.

martedì 4 dicembre 2012

I miei nonni (e me)


Nonno Giuseppe nacque nel 1898, avevo un nonno nato nell'Ottocento! Non solo. Aveva combattuto la Prima Guerra Mondiale, guidava un camion sulla linea del Piave e portava munizioni e viveri dalle retrovie in trincea. La sua prima figlia nacque nel '29. Viveva, insieme ai suoi fratelli, in una cascina davanti alla quale passava il tram che partiva da Milano, e oggi si direbbe "faceva l'imprenditore" (mentre in realtà produceva latte e formaggi, e si alzava alle 4 del mattino tutti i santi giorni). Rimase vedovo a cinquant'anni, e non si risposò mai. Quando i figli furono grandi, li portò sulla linea del Piave, un ritorno sui luoghi dove aveva combattuto: credo sia stato l'unico viaggio di mio nonno da qualche parte. Non ha mai avuto una macchina, ma la sua famiglia possedeva una carrozza. Andava in bicicletta, non andava in ferie ad agosto, ma passava un mese al mare a febbraio. Leggeva, leggeva tantissimo e continuò a leggere finché gli fu possibile: saggi storici sul Risorgimento e sulle Guerre Mondiali, una biblioteca ben nutrita e una certezza, quando era il momento di fargli un regalo. Non era un gran parlatore, ma assomigliava, nel piglio, a Francesco Giuseppe, in quei quadri che lo ritraggono alla fine del suo Impero - gli mancavano solo le marsine e i favoriti. Aveva una routine ferrea, e non usciva mai senza il cappello.

Il nonno Livio nacque nel 1908. La maestra della scuola elementare, sostenendo che il nome Livio non esisteva, andò all'anagrafe e glielo cambiò in Elivio, e dato che la maestra - insieme al sindaco - costituiva l'autorità indiscussa del paese, nessuno disse niente e mio nonno, per l'anagrafe italiana, rimase Elivio per tutto il resto della sua vita. A militare incontrò il re, che era basso e rosso di capelli come lui. Al tempo in cui si conobbero, la nonna era fidanzata con un altro, ma il nonno decise che sarebbe diventata sua moglie. E così fu. Sono stati sposati per cinquant'anni. Gestivano un'enoteca (una mescita di vini dove si spillava barbera e ogni tanto arrivava il salame da Piacenza) e, a tempo perso, mio nonno faceva l'intermediatore immobiliare (di terreni agricoli) e mobiliare (di cavalli). A pranzo e cena non beveva acqua - fa male alla digestione, diceva - ma aveva sempre una caraffa da birra piena di barbera. Fumò per circa settant'anni. Al precetto di confessarsi e comunicarsi almeno una volta l'anno per Pasqua, lui rispondeva andando a confessarsi - irrimediabilmente - il Lunedì DOPO Pasqua. Negli ultimi anni, sentii spesso mia nonna preoccuparsi, a tal riguardo, per la salvezza della sua anima. Nutriva una grande ammirazione per Almirante, ma ha sempre votato DC, sostenendo che il referendum del '46 fu un grande broglio elettorale. Passava i pomeriggi al bar, giocando a scopa, e fino a ottant'anni suonati era in grado di ricordarsi tutte le carte. Le sue scarpe erano sempre lucidissime.

Penso spesso, ultimamente, ai miei nonni, e alla loro vita. Hanno visto due guerre mondiali, e dopo le guerre hanno visto il mondo in cui sono nati sparire  - letteralmente - sotto il cemento. Avevano forse nostalgia della loro giovinezza, ma non erano attaccati a un'idea di mondo - così tante idee di mondo avevano visto passare sotto i loro occhi, che avevano capito che forse non era il caso di attaccarsi troppo a qualcuna. Non esisteva l'idea del posto fisso, e neanche quella opposta del "far carriera". Gli ospedali erano l'extrema ratio, si nasceva e si moriva in casa, e la stragrande maggioranza non arrivava alla licenza di quinta elementare. I matrimoni duravano sì e no quattordici anni, proprio come adesso, non perché ci si separava ma perché uno dei due moriva giovane, e il figlio maschio aveva più diritti e possibilità delle figlie femmine.

Hanno avuto una vita difficile, ma hanno trascorso una vecchiaia serena. E lunga. Penso spesso a loro, non solo con affetto, ma chiedendomi se la mia traiettoria di vita sarà in qualche modo simile alla loro, e in quali passi ricalchiamo quelli che loro stessi hanno compiuto.

mercoledì 21 novembre 2012

Abbiamo giocato a Wonderbook: ecco com’è andata a G come Giocare

Come vi avevo anticipato, sabato siamo andati tutti a G come Giocare, l’ormai annuale fiera del giocattolo a Milano. E siamo andati con uno scopo ben preciso, ossia approdare incolumi allo stand Sony per provare il nuovo gioco della PS3, Wonderbook – Il libro degli Incantesimi.

Gli incantesimi, manco a dirlo, sono quelli che si fanno a Hogwarts, ed essendo da queste parti grandi appassionati del maghetto e di Colui che non può essere nominato, il successo del gioco era abbastanza assicurato. Wonderbook è una nuova periferica per PS3, per utilizzarlo è necessario possedere la console (!), mentre il “pacchetto” Wonderbook comprende il controller di movimento Play Station Move e la telecamera. Sfogliando il libro, e muovendo il controller sulle pagine, i bimbi si vedono in TV, completamente immersi nella magia di Hogwarts.

Ecco Junior alle prese con l’incantesimo della levitazione:

Junior alle prese con il controller-bacchetta magica

La tecnologia della Realtà Aumentata, cioè la possibilità di rivedersi nello schermo, è sicuramente uno degli aspetti più innovativi e intriganti di questo gioco. In effetti non c’è la percezione del device, ma la percezione di ciò che si vede nello schermo, che è ben altra cosa. Ecco come (e dove) si vedevano i miei figli, nella confusione totale della Fiera:

Vingardium Leviosa

Ecco come appaiono in TV controller e libro

Mentre i bimbi giocavano, ho potuto chiacchierare con Serena, Sara e Linda della loro esperienza di Dicelamamma.it, il nuovo progetto editoriale al quale stanno collaborando, con un occhio particolare alle nuove tecnologie e alle domande e alle sfide davanti alle quali i nostri bimbi ci pongono ogni giorno: quante volte dire “Sì, ok, puoi giocare con il videogame”? Quante ore davanti alla TV con la console accesa? Quante app possono scaricare?

Per fortuna, a G come Giocare non abbiamo avuto questo problema: i bimbi che volevano provare il gioco erano così tanti che il tempo era necessariamente limitato, senza neanche bisogno di attivare il timer del forno.

martedì 20 novembre 2012

Di mamme e scuola a casa sui diritti dell'infanzia. Un post sconsclusionato

Oggi è la giornata per i diritti dell'infanzia.
Ieri sera, in un momento di rara lucidità temporale (non so voi, io faccio fatica a collocarmi nel tempo, ultimamente, sono convinta che sia mercoledì e invece è giovedì, mi sembra ottobre e siamo alla metà di novembre, incontro una coppia di amici e chiedo: "La bimba compie due anni a gennaio, vero?" e loro "No, veramente ne compie tre", e via di questo passo) mi sono ricordata che oggi è la giornata dei Diritti dell'Infanzia.

Non potevo fare a meno di pensare ai bimbi di Gaza.
E non capisco perché i diritti per l'infanzia sono argomento per bambini di scuola materna e (al massimo) prima elementare, e poi basta, non se ne parla più (insomma, quantomeno è quello che è successo ai miei figli). Forse perché sono un argomento sconveniente. Mah.

"Junior, che dici, in quinta elementare per caso avete parlato di Gaza, oggi a scuola?"
"No mamma, perché?"
"Mah, perché oggi hanno sparato dei razzi e sono morti dei bambini..."

E ok, mi immagino già la metà di voi con il cellulare in mano pronti a chiamare Telefono Azzurro. Ma come gliela spiego io, questa storia, ai miei figli?

"E' una storia lunga... Vi ricordate cosa diceva il Vangelo di ieri?"
Junior: "Ah sì, benissimo"
Piccoletta: "No, io non ho ascoltato"

Indovinate chi ha azzeccato la risposta giusta.

"Giusto Piccoletta, la storia del tempio. Quando è stato distrutto il tempio di Gerusalemme?"

Junior: "Quando i Romani hanno invaso i Babilonesi che avevano deportato gli Ebrei"
Ecco, questo è il risultato di due anni di studio della storia alla scuola primaria, dopo aver passato un anno a vivisezionare dinosauri e l'anno dopo a scervellarsi sulle mummie.

"No, dunque, ehm, non è andata proprio così...."

Va bene, l'abbiamo presa un po' alla larga, e dopo essere arrivati ad Anna Frank abbiamo perso le fila del discorso. Come nel migliore programma scolastico, dove non si arriva mai oltre il 1946.

E quindi. Oggi è la giornata dei diritti dell'Infanzia, non ho video che riassumano in dieci minuti la storia della Palestina (ma servirebbero, così, come compito di massima semplificazione che noi non riusciamo a fare ma che viene così bene agli anglosassoni), non ho video del Tg. Ho trovato solo questo, che mi piace molto

mercoledì 14 novembre 2012

#Dicelamamma: Volevo solo G come giocare, e F come Fare Incantesimi

Wonderbook: Il libro degli Incantesimi per Playstation 3

C’è un periodo, nella vita delle mamme, in cui: "Mamma, giochiamo con le macchinine?", "Mamma, giochiamo a Barbie?", "Mamma, giochiamo?". Ricordo le mezz’ore a far rotolare la palla di spugna sul pavimento, quando stavano seduti ma non gattonavano ancora; i pomeriggi al mare a giocare con le macchinine, quando papà è a far dormire la più piccola ma il grande non ne vuole sapere; i puzzle fatti insieme, quando aspetti che sia lei a mettere il pezzo al posto giusto, e fai il tifo; i pianti, quando "Mi spiace, ma la mamma non ha proprio tempo".

Poi, pian piano, nessuno più chiede alla mamma di giocare.

Com'è, 'sta storia, che nessuno chiede più alla mamma di giocare?

Iniziano i giochi con gli amici, le partite all’ultimo videogame, la collezione di figurine, il gioco di fantasia con i personaggi della saga preferita, i libri, i fumetti e i disegni.

Ma la mamma non si perde certo d’animo, quest’anno vi frega tutti e sabato va a G come Giocare. Ci va con le sua amiche di Dicelamamma e va a scoprire un nuovo gioco, anzi no un libro, anzi no un’avventura. Un videogioco che è un libro ma che sembra un’avventura pazzesca – e infatti si chiama Wonderbook.

“Sabato andiamo in Fiera, proviamo il gioco de Il libro degli Incantesimi di Harry Potter, ti va Junior?”
“Wow mamma che bello! Il gioco per la PS3!!”
“Scusa Junior, ma come fai a saperlo?”
“Ma mammmaaaaaaaa, ho visto la pubblicità in TV!!”.

Bimbi, fate i bravi. E fatemi giocare per prima.

lunedì 22 ottobre 2012

Al lupo, al lupo! Prima Puntata. Il caso omeopatia

Illustrazione di Barbara Vagnozzi

Tempo fa sono stata invitata, insieme ad altre mamme, a trascorrere una mattina in Boiron, l'azienda che produce medicinali omeopatici. Resoconti dettagliati e/o riflessioni sulla mattinata sono qui, qui, qui e ancora qui. E sicuramente su altri blog che in questo momento sto dimenticando.

Senonché, ancora prima di esprimere il mio (fondamentale, direi) pensiero sulla vicenda, sono incappata in un post piuttosto feroce di CosmicMummy. Senza nemmeno aver proferito una sillaba, quindi, sono stata classificata come un'"ingenua". Raccontando l'accaduto, a cena, ho dato il là a una vivace discussione tra la sottoscritta e una fisica che fa ricerca applicata. Le argomentazioni portate dalla mia amica erano perfettamente coerenti con lo standard scientifico di riferimento: la diluizione è eccessiva, è solo zucchero, l'omeopatia non cura niente di serio che possa essere definito malattia. Ergo, è inutile. Quindi, dannosa. Perché poi le persone ingenue (mumble... Dove l'ho già sentito, recentemente, questo termine?) pensano di poter curare i tumori con l'omeopatia, come quello là, ve lo ricordate (come caspita si chiamava?!?). Nessuna evidenza scientifica.

Questo atteggiamento mainstream mi ha fatto molto riflettere, perché a parer mio contiene al proprio interno una serie di assunti errati, e di verità che vengono date per negate.

1. L'omeopatia non cura niente di serio. Vero. Nessuno (mi auguro) tra chi si occupa di omeopatia ha mai affermato il contrario. Con l'omeopatia NON curiamo i tumori, non curiamo la broncopolmonite, non curiamo un sacco di cose. Ma curiamo la tosse, contribuiamo ad alzare le difese immunitarie, alleviamo il mal di pancia dei dentini che crescono o del pomeriggio che arrivano a casa da scuola con quel mal di pancia lì, che non è niente, curiamo gli occhi arrossati, tentiamo di rendere meno fastidiose le punture di zanzara e non so cos'altro perché la mia esperienza si ferma qui. Ho scoperto che con l'omeopatia è possibile aiutare nell'allattamento (e sa il Cielo quanto sia fatico allattare, ma no, non si può dire), nel combattere la nausea da chemio, e altre amenità del genere. La scienza non le considera malattie? Non mi scompongo. D'altronde io sono quella convinta che l'influenza ti viene quando glielo permetti tu, e che la psicoterapia può essere un'alleata nella cura dei tumori. Ma mi piacerebbe sapere allora qual è la definizione scientifica di malattia. Davvero.

2. L'omeopatia è inutile, quindi dannosa, quindi non bisogna parlarne. Più o meno, quello che accade nel nostro Paese. E così arriviamo al motivo per il quale ho intitolato questo post "Al lupo! Al lupo! Prima puntata". Perché in questo post, e nel successivo, affronterò alcune riflessioni innescate dal docu-film Al Quaeda! Al Quaeda! che, come sapete, ho visto la scorsa settimana. Nel libro e nel docu-film vengono ricostruiti i processi di delegittimazione che portano alla diffamazione di un soggetto: nel film c'è un esempio di delegittimazione condotto anche (persino!) attraverso il programma TV Le Velone, e non dico altro. Siamo abituati a considerare la delegittimazione, o la diffamazione, come un attacco esplicito, diretto, a viso scoperto. Ho capito che invece, molto più frequentemente, la delegittimazione sui mezzi di comunicazione non passa solo attraverso le notizie del telegiornale, o i titoloni della prima pagina del quotidiano, ma attraverso la costruzione variegata di un pensiero mainstream nei servizi di cronaca "minore" (chiamiamola così, anche se chi guarda certa TV non si nutre di altro), al programma d'intrattenimento, alla battuta nello show serale, al post anonimo, all'attacco del signor Nessuno. Ne ho dedotto che la vera capacità critica nell'utilizzo e nel consumo dei media, allora, non sta tanto nel soffermarsi sui contenuti ("Sei a favore a contro l'omeopatia?!?" "E' scientifica o no?!?") ma sulla de-costruzione del pensiero corrente, del pensiero mainstream. Qui, come ovunque. (E comunque qui vale la regola: funziona, la uso. Non funziona, cambio. Io che non ho interessi da difendere, non vedo dove stia il problema e la paura.)

2. La medicina è una scienza. Io non so quando la medicina sia diventata una scienza, dato che per molti secoli è stata un'arte. Ma su questo concetto di "medicina come scienza" vorrei soffermarmi due secondi. Perché, in proposito, ho una grossa domanda che mi frulla in testa da quando sono stata coinvolta in questa vicenda di mamme ingenue che pensano di scroccare il pranzo alla Boiron e poi farla franca.
E la mia domanda è proprio questa: la medicina è una scienza - una scienza esatta? O, meglio, come può la medicina essere una scienza esatta, quando lo stesso standard ottiene effetti differenti su due pazienti diversi? E' uno dei due pazienti che è "sbagliato"? Avendo vissuto sulla mia pelle l'incapacità, da parte dei medici, di affrontare il fallimento dei propri sforzi, e l'incapacità di accompagnare una persona verso la fine della propria vita, invece che accanirsi contro la malattia, questa domanda mi frulla in testa da un bel po', ma solo ora ho avuto l'occasione di tirarla fuori. Quindi, cari amici medici e non, fatevi sotto. Che io una risposta la cerco davvero.

venerdì 19 ottobre 2012

Come mi gira: tanto per cominciare


Regalo di compleanno: rivedere dopo sette anni un'amica, e pranzare insieme come se ci fossimo viste il giorno prima, e ritrovarsi in una visione e in un giudizio. Regalo di compleanno: rivedere dopo sette anni un'amica, e ricevere una trottola in regalo. Una trottola di legno, verde.

Una trottola che non so come far girare, fino a quando mia figlia non mi fa vedere come si fa.

E quindi da quando ho compiuto gli anni, feroce ponte verso il 2013 e verso i quaranta, penso a "come mi gira".

Mi gira che se a vent'anni cerchi risposte, a trenta ti smazzi le risposte che hai trovato, a quasi quaranta inizi ad apprezzare lo stare nelle domande, senza fretta di trovare risposte. Si dice anche: la saggezza della vecchiaia.

Mi gira che non ho più voglia di persone che fanno marketing di se stesse all'aperitivo o a cena. Si chiama anche: seleziona meglio le persone con cui uscire.

Mi gira che osservo, e imparo dalle donne che incontro e che apprezzo. E imparo un sacco. Archivia alla voce: le mie personal guru (ricordati di dirlo loro).

Mi gira che se ho le ossa rotte, ho le ossa rotte. E delle mie incazzature, non sono io la diretta responsabile: è chi mi fa incazzare. E mi gira che, mentre chiacchiero con un'amica e distruggo una bustina del tè, posso ammettere a me stessa, tranquillamente, che quella cosa lì mi fa proprio incazzare. Ancora. Ma come, non doveva essermi passata?!?! Non dovevo averla elaborata?!?

Mi gira che vado a vedere la proiezione di Al Quaeda! Al Quaeda! ed esco con più domande che risposte. E mi sembra di essere l'unica perplessa, in sala, ma fa niente. Sorrido. Archivia alla voce: docu-film da rivedere, comunque ben fatto, un argomento che riprenderò su queste pagine.

Mi gira che qui è in atto una mattanza di quarantenni - e quelli che hanno fatto carriera, perché hanno fatto carriera - e quelli che sono precari, perché sono precari - e nessuno ne parla. La storia dirà: LA generazione sfigata, uccisa dai genitori al governo e scaricata dai maestri occupati a difendere solo se stessi. Sentitamente ringraziamo.

Mi gira che cerco di fare discorsi diplomatici, ma chi mi conosce mi dice che la mia faccia mi tradisce. E la mia faccia mi tradisce sempre. Archivia alla voce: tanto vale dire quello che penso.

E poi mi gira che c'è bisogno di spazio per girare, ma di mani che ti tengono lì per non cadere. E questa cosa, scritta così, l'avrei scritta uguale vent'anni fa.

venerdì 21 settembre 2012

A tavola ci si diverte [Memento]

Non so voi.
Da queste parti, capitano periodi in cui le cene si trasformano in un campo di battaglia.
"Junior stai diritto"
"Mamma, ma ti avevo detto la pasta in bianco, ecco io non magio"
"Piccoletta, mangi quello che c'è"
"Nooooooooooooooo"
"Junior non sbattere la bocca"
"Io voglio il muesli"
"Mangia la pasta e poi ti dò il muesli. Junior, ti ho detto di star diritto"
"Uffffa mamma sei cattiva"
"Sì sono cattivissima, JUNIOR STAI DIRITTO"
"Posso mangiarne solo metà?"
"No, tutta"

E via di questo passo. Quello appena trascorso, complice il faticoso ritorno-a-Milano-senza-scuola-con-clima-tropicale, era uno di quei periodi. Per cui, quando da FattoreMamma mi è arrivato l'invito alla Cena Babybel A tavola non si gioca ma ci si diverte ho pensato che forse anche io avrei visto la luce in fondo al tunnel. O, quantomeno, avrei passato una serata piacevole, invece che in assetto da cena belligerante.

E infatti così è stato.
I bambini si sono divertiti a giocare e creare con la cera rossa che ricopre i formaggini Babybel, con risultati molto diversi da bambino a bambino, secondo le attitudini e gli interessi personali. Però non attacchiamo con la solita storia del genere, eh.

Pallina da calcio Babybel 

Fiori, bimbe bionde e occhi verdi

Mentre i bimbi erano impegnati a giocare e creare, le mamme se la chiacchieravano e si cimentavano nell'Italian Contest Babybel, con la creazione di un piatto divertente. Non so voi. Questo esercizio per me è stato una forma di training autogeno per ricordare che una cena degenera in guerra nel momento in cui è la mamma che sbatacchia la pasta nel piatto in modo inconsulto e che si siede a tavola sperando che il supplizio finisca il prima possibile. Che la cura nel cibo è sempre giusta, e sempre possibile, anche quando si hanno dieci minuti per preparare un piatto a base di verdure e formaggini.

Questa è la mia creazione (che volete fare, come vedete la riflessione è ampia e approfondita ma le capacità manuali sono quello che sono), che non regge il confronto con quella della vincitrice, l'impareggiabile Lucia, seguita da Sara e da Veronica. Ma, a guardarlo bene... Vi ricorda qualcuno?

Nun me somijia manco pe' niente

lunedì 17 settembre 2012

Bambini e socializzazione: il caso Ultima Spiaggia

Correva la fine degli anni Sessanta e a poco più di due mesi di vita l'Ing. arrivava, a bordo della sua fiammante carrozzina, all'Ultima Spiaggia.

Qui ha trascorso, da allora, tutte le sue estati, ai tempi in cui la scuola iniziava ad ottobre. I Bagni Lido lo hanno custodito amorevolmente, la compagnia di amici era una banda squinternata e felice, il windsurf e il beach volley le sue principali occupazioni, il Lungomare il punto di partenza per i viaggi altrove.

Come tutte le età dell'oro, anche le estati all'Ultima Spiaggia hanno subito un lento e inarrestabile declino provocato da una serie congiunta di calamità, tra le quali deve chiaramente essere annoverata la sottoscritta.

La casa di una vita e' stata cambiata, gli adorati Bagni Lido sono stati abbandonati (evento che ha causato all'Ing. un'estate intera di lutto stretto), la compagnia di amici ha intrapreso strade diverse (tra cui quella più improbabile, praticata dall'Ing., di diventare padre) la moglie si rifiuta di passare non dico tre mesi, ma neanche tre settimane di fila, all'Ultima Spiaggia.

La Nonna e le sue amiche, Ultima Spiaggia
Nonna: "Eh non c'e' niente da fare, i tuoi figli non fanno amicizia con nessuno, proprio come i loro cugini"
Amica di Nonna: "Ah ma che strano che i tuoi figli non fanno amicizia con nessuno. Ma a Milano hanno degli amici?"

L'Ing., da solo con la prole all'Ultima Spiaggia
Ing: "Amore, i tuoi figli non fanno amicizia in spiaggia. Tutti gli altri bambini giocano tra di loro"
Lo: "Tesoro, ma tu che amicizie hai fatto in questi 10 anni che siamo ai Bagni Italia?"
I: "Ma che c'entro io?"
L: "Tutti gli altri bambini stanno qui tre mesi filati, i nostri no, quindi e' ovvio..."
I: "Vedi, la colpa e' tua"
L: "E poi lo sai che i tuoi figli sono timidi. E Junior e' un iper-selettivo. Inizia tu a fare amicizia con gli altri genitori".
I: "Ma chi?"
L: "Ma che ne so"

Junior e me, dopo una settimana all'Ultima Spiaggia
"Junior, ti iscrivo al corso collettivo di tennis"
"Mamma! Mi avevi promesso che mi avresti iscritto al corso individuale!!"
"Ma J, siete solo 5 bimbi!"
"Non m'importa, lo sai che non sono capace di fare amicizia!!!"
"COOOOSA?!?"

Abbiamo dimostrato a Junior che non e' vero che non sa fare amicizia, o almeno ci abbiamo provato. Ma anche gli ultimi scampoli di estate ci hanno regalato un Junior decisamente abbarbicato sul lettino sotto l'ombrellone, restio a qualsiasi tipo di socializzazione da Ultima Spiaggia. Ed essendo sulla soglia dei dieci anni, io guardando al futuro un po' mi pre-occupo.

E quindi si apre la questione:

Posto che:
a) togliete tutto all'Ing., ma non l'Ultima Spiaggia 

Le soluzioni che riesco a ipotizzare sono:
b) immolarmi alla causa dell'Ultima Spiaggia e fare il mutuo della vita per comperare un monolocale soppalcabile, aprendo il blog lelamentazionidell'ultimaspiaggia.blogspot.com;
c) costringere i miei figli (perche' appare evidente ai più che due che non socializzano all'Ultima Spiaggia non possono essere altro che figli miei) alla socializzazione forzata, dietro minaccia;
d) fregarmene.

E voi, come affrontereste un eventuale problema di socializzazione dei vostri figli?

(E comunque, ragazzi, per fortuna che anche quest'estate e' andata)

mercoledì 12 settembre 2012

Ritorno a Scuola



"Amore, ma c'era il 3x2 dell'asciugatutto al supermercato?"
"No tesoro, inizia la scuola"

Buon Anno Scolastico a tutti noi.


martedì 28 agosto 2012

Padre Pluche

Normandia su Flickr
"Signore Buon Dio
abbiate pazienza
son di nuovo io.

(...)

Il problema è questa strada
bella strada
questa strada che corre
e scorre
e soccorre
ma non corre diritta
come potrebbe
e nemmeno storta
come saprebbe
no.
Curiosamente,
si disfa.
(...)

Adesso, non per sminuire, ma dovrei spiegarvi questa cosa, che è cosa da uomini, e non è cosa da Dio, di quando la strada che si ha davanti si disfa, si perde, si sgrana, si eclissa, non so se avete presente, ma è una cosa da uomini, in generale, perdersi. (...) Innanzitutto non dovete farvi fuorviare dal fatto che, tecnicamente parlando, non si può negarlo, questa strada che corre scorre soccorre, sotto le ruote di questa carrozza, effettivamente, volendo attenersi ai fatti, non si disfa affatto. Tecnicamente parlando. Continua dritta, senza esitazioni, neanche un timido bivio, niente. Dritta come un fuso. Lo vedo da me. Ma il problema, lasciatevelo dire, non sta qui. Non è di questa strada, fatta di terra e polvere e sassi, che stiamo parlando. La strada in questione è un'altra. E corre non fuori, ma dentro. Qui dentro. Non so se avete presente: la mia strada. Ne hanno tutti una, lo saprete anche voi, che tra l'altro, non siete estraneo al progetto di questa macchina che siamo, tutti quanti, ognuno a modo suo. Una strada dentro, ce l'hanno tutti, cosa che facilita, per lo più, l'incombenza di questo viaggio nostro, e solo raramente, la complica. Adesso è uno di quei momenti che la complica.

(...)

Così adesso, volendo riassumere volendo, il problema è questo, che ho tante strade intorno e nessuna dentro, anzi a voler essere precisi, nessuna dentro e quattro intorno. (...) Come vedete non è che io non abbia le idee chiare, le ho chiarissime ma solo fino a un certo punto della questione. So perfettamente qual è la domanda. 
E' la risposta che mi manca." 
                                                                                                                    A. Baricco, Oceano Mare

lunedì 23 luglio 2012

Scenari dell'estate sospesa

@The Metapicture


Scenario I
L'umanità si è ravveduta.
Io ho avuto il mio (stra-meritato e stra-dovuto, diciamocelo) contratto a tempo indeterminato, faccio il mio (stra-desiderato) dottorato di ricerca, frequento il club degli Amici d'Europa, l'Ing. ha avuto la sua promozione, abbiamo una casa per la quale nessuno ci chiederà più "Ma non avete bisogno di una stanza in più?!?", ho una tata meravigliosa che Mary Poppins le fa un baffo, e Cenerentola non sapeva lavare i pavimenti, al confronti. Junior si avvia come un piccolo boy-scout verso le scuole medie, fa dieci sport e legge dieci libri al mese, Piccoletta ha capito finalmente perché non le faccio vedere "Non Può Essere", coltiva rapporti sereni ed equilibrati con le sue compagne e amiche, è convinta che prima o poi avrà una fattoria.

Scenario II
Il meteorite è caduto.
Sono disoccupata. Abbiamo ricominciato a coltivare il pezzettino di terra che costituiva l'orto del nonno, che però produce pomodori a settembre e cavoli a marzo, essendo esposto a Nord e circondato da alberi. Abbiamo una capra (per il latte) e le galline (per le uova). Taglio e cucio scamiciati in lana cotta per piccoletta, io che mi ero esibita al massimo in onerosissimi punti croce per le sacchette dell'asilo, per i pantaloni di Junior non ho ancora capito bene come fare. Lo Stato Italiano non paga più gli stipendi alle maestre, e le scuole a settembre non hanno riaperto: studiamo a casa, tutti insieme, la mattina. Cucino biscotti, perché quelli confezionati sono troppo cari. Viviamo tutti a casa della Grande Nonna, che dà di matto per la presenza simultanea del cane, della capra e delle galline, tutti esseri animali puzzolenti e altamente indesiderati, ma che non può fare altrimenti perché è rimasta senza pensione. La casa di Milano è chiusa e sfitta. Con lo stipendio dell'Ing. paghiamo la luce, l'acqua, il gas, il riscaldamento e la connessione a Internet, da dove scarico le lezioni online per i bimbi e le istruzioni per coltivare l'orto (sulle capre non si trova granché).

Passano i giorni, Scenario I e Scenario II si sovrappongono nella mia mente senza sosta: ricevo una mail con un invito, ecco Scenario I, pago la spesa al supermercato sottocasa, ecco Scenario II. C'è da dire però che Scenario II mi accompagna più volentieri, in questa fine di luglio. E quindi, già che ci siamo, datemi qualche buon consiglio su come allevare una capra.

lunedì 9 luglio 2012

Tra Renzo Tramaglino e Don Chisciotte: walking on the wild side



Una bicicletta trovata su Flickr

Di questi tempi, penso spesso a Renzo Tramaglino.
Mi sento spesso come Renzo Tramaglino, alle prese con una legislazione barocca di cui non capisce il senso, oltre che la lettera. Lui vuole solo sposare Lucia, avere un lavoro e tanti figli, e vivere la sua vita nel paesino.
E' un'aspirazione così banale, così insulsa, così idiota?
A leggere i Promessi Sposi a sedici anni, viene da pensare di sì.
A ripensarci una ventina di anni dopo, proprio no: Renzo non era uno che si accontentava di poco.

In questi giorni mi sento un po' Don Chisciotte, che non conosco sul serio.
A sedici anni e più, la figura di don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento per amore di giustizia mi affascinava.Finché, una ventina di anni dopo, ho iniziato a lottare contro i mulini a vento. Che sono i muri di gomma che circondano la vita: le persone che non hanno mai responsabilità di niente, lo strascico interminabile delle chiamate ai call center, le domande alle quali nessuno vuole dare risposta, le pratiche mai partite, le ore spese a capire come venirne fuori, le linee telefoniche che a un certo punto, straziate pure loro dalla conversazione o dall'attesa, si suicidano. Pazienza se succede alla linea telefonica dell'ASL. Ma se capita alla linea telefonica della Grande Multinazionale del Telefono, è un po' strano - o, quantomeno, ridicolo.

Ogni estate ha la sua canzone.
La mia canzone dell'estate 2012 ha 40 anni.
Un po' vecchiotta, direte voi.
E avete ragione (insomma, il mood del post è un po' d'antan, in effetti, tra Renzo Tramaglino e don Chisciotte, non so se Lou Reed ne sarebbe proprio contento)

Parla di travestiti, e di altre cose che poco si addicono alla figura immacolata di una madre di famiglia - parla comunque di cambiamento, e dopo e durante l'estate ne vedremo delle belle - non chiedetemi quali, però, perché in questo momento proprio non lo so.

Forse sarà sufficiente l'ebbrezza di essere riusciti a pagare le tasse, di questi tempi (in effetti, che me ne faccio io dei mulini a vento, dei capponi e delle droghe quando posso vivere in questo Paese in qualità di contribuente?!?)

Intanto, vi dico che quest'inverno il gelsomino è morto.
L'Ing. ne ha piantato un altro, ma sapete che il gelsomino è metafora.
E dunque anche questo blog cambierà pelle - non chiedetemi quale sarà, però, perché in questo momento proprio non lo so.

Buona estate, cari i miei dieci lettori.
Take care, and have fun

lunedì 11 giugno 2012

Di #mammacheblog, cibo per la mente e sfide tecnologiche


In pillole
Incontrare facce belle e donne che combattono con il futuro in tasca, nonostante il futuro.

Ammirare il lavoro di Jolanda Restano e di FattoreMamma, e ancora una volta ritrovarsi a pensare che la bravura non è casuale ma è il risultato di una somma precisa: talento+passione+impegno.

Scappare a comperare una lavatrice, che si è rotta dieci giorni fa e la Grande Nonna ha minacciato di tagliarci il lavaggio panni, quando ha saputo che invece di essere al Centro Commerciale eravamo al Quanta Village.


In inglese
Outstanding Luigi Centenaro, pacato e dritto al punto. Vero cibo per la mente, le sue parole.

Wasting il capitale umano presente ai MomTalk farebbe crollare qualsiasi spread. Se fosse usato tutto, e bene.

Mobilizing che mammablog vuoi essere, se uno smartphone non ce l'hai. Per cui si ringrazia ancora una volta Vodafone per avere il mio smartphone in assistenza da 3 settimane, senza sapere quando lo riavrò indietro. Per dire che una mammablogger americana, come minimo, avrebbe già denunciato la compagnia telefonica per danno professionale, o saprebbe almeno a quale numero inviare un fax. E noi siamo qui a domandarci se il mammyblogging ha una sua dignità. Per dire.


giovedì 31 maggio 2012

Ma dov'è finita


Qualcuno si chiede, e mi chiede, dove sono finita.

Oggi sono su GenitoriCrescono, e parliamo di scuola.

E il prossimo 9 Giugno mi trovate pure qui:




Una presenzialista pazzesca.

venerdì 4 maggio 2012

Cosa desidera il quarantenne di successo

Guido Martinetti e Federico Grom sono gli enfants prodige dell'imprenditoria italiana: sono ovunque, trasmissioni TV, radio, giornali (e dato che sono avanti non hanno neanche fatto la fatica di aprire un blog, che ormai fa anche un po' basso profilo, prima di scrivere un libro).

Sono enfants perché in un paese dove l'età media è 44 anni, loro ancora under 40 hanno un'azienda di 500 dipendenti; sono prodige perché dopo gli stilisti che fanno anni Ottanta (tutti o quasi fatti fuori dai grandi fondi di investimento e dalle multinazionali del lusso, tra le quali manco una italiana) e i designer che fanno anni Novanta (e che regalano a Milano ultimi barlumi di civiltà), la nuova gloria dell'esportazione nazionale in questo triste nuovo Millennio è l'italico cibo. E loro, appunto, hanno portato in tutto il mondo una delle nostre gloriose cibarie nazionali, il gelato, quello buono.

In più sono belli (oddio, il Federico ha un penchant un po' nerd, il Guido da fighetto torinese, ma volete mettere rispetto a quello che si vede in giro? Niente che una donna sapiente non possa aggiustare in un paio di mesi), trasudano intelligenza (uno è il genio dei numeri e l'altro del marketing), sono simpatici, lavorano come dei matti ma (evidentemente) se la godono, con quell'understatement sabaudo-milanese che va tanto, di questi tempi.


E dunque, mentre li guardavo ieri sera intervistati a DeejayChiamaItalia, cosa salta fuori?
Cosa desidera il quarantenne di successo?

Una famiglia.

Glom.
E' chiaro che i due non sanno di cosa parlano.
E' che chiaro che fa anche molto marketing. C'è chi insegna.
Ma, suvvia, dato che sono così carucci gli do il beneficio di inventario: facciamo finta che fossero sinceri  al 100%. Devo dire, mi hanno fatto una gran tenerezza.





E dato che hanno la mia età (vabbe' le signore non dicono mai la loro età e io su un anno o due posso anche mentire, no?), non posso fare a meno di fare confronti e pensare che mentre io sfornavo due figli, mi arrabattavo tra un progetto e una partita iva dei poveretti, macinavo chilometri e anni in vai a prendere a scuola-porta a scherma/nuoto/danza/karate/giardinetti/catechismo/festadicompleanno/spettacolodinatale-organizzalevacanze-alzatidinotte-dailatachipirina-celafaraiapagareletasse?-litigaconmarito-failapceconmarito-sopportapazientemente-vedraicheprimaopoiescidaltunnel-chissàcosafaròdagrande-mannaggiaamemachi*****melohafattofare, loro si sono fatti il mazzo, e gli è andata bene.

Non per dire che uno non è mai contento di quel che ha.
Ma così, per dire che è la vita - che siamo un po' noi, quelli della generazione a cui manca sempre un pezzo. Ogni tanto, anche due.

giovedì 26 aprile 2012

Ma voi vorreste che vostro figlio fosse Messi o Maradona?

Riprendo il titolo dall'editoriale di oggi di Gramellini su La Stampa, Perché Messi non è Maradona, con il quale non so bene se essere d'accordo o no (più no che sì, probabilmente).

Innanzitutto, perché di calcio non so proprio niente (sono quella che passa le partite a chiedere "Ma questo chi è?"). In secondo luogo, perché non so se sei proprio solo tu che fai vincere le partite alla tua squadra.

Comunque.

Dato che il calcio è anche una metafora di vita, la questione che mi attanaglia è questa: preferireste avere un figlio genio-di-successo, ma infelice nella vita (perché diciamocelo, quanti pittori-musicisti-attori-scrittori dei quali ricordiamo il nome possono dire di avere avuto una vita felice, o quantomeno mentalmente sana?) o un figlio geniale ma che si accontenta di una vita approssimativamente vicino alla felicità?

Ecco, non che io sia la madre di Baudelaire o di Emily Bronte, ma questa domanda un bel giorno me la sono posta. Chiaramente, io preferirei essere la madre di Messi. E non so se Maradona sarebbe diventato Maradona, con una madre come me. Ma... E se avessi avuto un figlio come Maradona?

E poi c'è questo stereotipo tipicamente post-romantico di genio e sregolatezza, che continua a produrre un sacco di sregolati e pochi geni, di questi tempi. E mi viene da pensare che forse su questo stereotipo bisognerebbe che si ragionasse un po', ma poi non lo so. Voi che ne dite?

martedì 10 aprile 2012

Tip of the Day: sento solo chi sussssssurrrrra


Piccoletta, vol. 8: "MAAAAAMMMMMAAAAAAAA VOLEVODIRTICHE"
Junior, vol. 9: "PISELLOCACCAPOPO'" (sì, è ora di iniziare a parlare di sesso con Junior)
Lorenza, vol. 10: "BIMBI BASTA STRILLARE TUTTI QUANTI!!!"
Ing. vol. 11: "VI METTO IN CASTIGO SE STRILLATE ANCORA!!"

Questa è una quotidiana conversazione in casa nostra.

Oggi, dopo aver strillato per cinque giorni di vacanza, aver strillato al termine del pranzo (MAMMA BASTA NON NE VOGLIO PIU'), aver strillato al recinto (MAAAAAACCHIA VIENI QUI), aver strillato per strada (MAMMMA MA JUNIOR MI HA DETTO DI VENDERE I VESTITI SE VOGLIO I SOLDI PER LE FIGURINE), aver strillato per strada (BIMBI BASTA STRILLARE PER STRADA), aver strillato sul pianerottolo (AHAHAHAHAHA PICCOLETTA CI SEI CASACATA), ecco l'illuminazione.

"Ok bimbi, volevo dirvi che da questo momento in poi io sento solo le persone che parlano a bassa voce".
"Cosa, mamma?"
"Sento solo le persone che parlano a bassa voce"
"Ah"
"Mamma vado a fare la cacca"
"Mamma posso guardare la TV?"


"Mamma, ma fino a quando dura questa cosa?"
"Per sempre, io le persone che urlano non le sento più"
"Davvero?!?"


E' calata la pace, un alone di silenzio innaturale aleggia da dieci minuti in questa casa.

I credits per cotale ispirazione vanno a Le Sussurateur, mitico ladro ne Il gatto con gli stivali: i Tre Diablos, inedito contenuto nel DVD de Il Gatto con gli Stivali, e a QAF.Quoziente di Autostima Familiare, di cui si parla qui.


martedì 20 marzo 2012

Il cinquantenne e l'Articolo 18


Alla macchinetta del caffè.
E voi lo sapete che alla macchinetta del caffé si raccolgono le confessioni più scabrose.

"Perché, vedi..."
E abbassa la voce, mi si fa vicino.
Tendo le orecchie.
"Il problema, con l'art. 18, secondo me, è questo."
Tentenna.
"Dimmi", lo rassicuro.

Figuriamoci se mi lascio scappare la confessione alla macchinetta del caffè.

"... Che se per le aziende diventa più vantaggioso far lavorare giovani e donne, quando tu hai lavorato vent'anni e sei diventato uno che costa, ti licenziano. Sai, io ormai... Mi danno una buonuscita, tiro a campare qualche anno, e poi vado in pensione. Ma se uno [maschio, italico, ndr] a quarant'anni, dopo vent'anni che lavora - e tu lo sai che gli scatti sono in base all'anzianità - si ritrova senza lavoro? Cosa fa?"

"Mah, secondo me se uno ha lavorato bene un'azienda non lo licenza... Sarebbe un costo troppo elevato perdere un lavoratore specializzato per doverne formare un altro" (ammesso e non concesso che sia specializzato, ma sorvoliamo su questo tasto dolente)

"Eh ma se una donna o un giovane costano meno... Questo qui cosa fa?"

Non dico nulla, niente pipponi (e ne avrei a iosa, tutto quello che può frullare nella testa di una precaria alla quale è capitato anche di sentirsi dire "Ah ma lei ha cambiato un sacco di lavori").

Penso solo: eccolo lì, stanato nel suo santuario, il maschio cinquantenne. Quello che ha lavorato tutta la vita, senza lazzi, senza frizzi, ha assolto il suo compito senza troppo trasporto, barando il minimo sindacale, allungando solo un po' le pause alla macchina del caffè e senza neanche un giorno di finta malattia. Una vita fatta di poche ma concrete, solide certezze: la scrivania, il pc, gli scatti di carriera che negli ultimi anni sono diventati sempre più un miraggio, messe paurosamente in bilico.

Da chi, per "colpa" di chi? Per colpa di un'orda di trentenni senza lavoro e di donne assatanate, ai quali l'abolizione dell'art. 18 aprirà possibilità insperate.

Sorrido, e scuoto la testa.
Solo nel nostro Paese poteva verificarsi l'assurda equazione, nella mente di tanti lavoratori, grazie a tanta stampa e a qualche ministro compiacente, tra l'abolizione dell'articolo 18 e la questione lavorativa dei giovani e delle donne.

Ma siamo davvero convinti che la sola abolizione dell'art. 18 farà sì che il cinquantenne venga buttato fuori a calci nel sedere, e vengano stesi tappeti rossi al ventitreenne? E siamo sicuri che per la sola imposizione dell'abolizione dell'art. 18 con annesso congedo obbligatorio di paternità, la mente dell'imprenditore brianzolo improvvisamente si apra all'illuminazione, e inizi a considerare il genio femminile come apporto imprescindibile alla sua missione di imprenditore nel mondo (o diciamo almeno fino a Bergamo)?

Personalmente, non ne sono così sicura. Ma la cosa importante, intanto, è farlo credere al cinquantenne, fargli capire che tutte le sue certezze in fondo non sono così certe, in questa isteria collettiva intorno a una riforma che aspetta di essere fatta da quasi vent'anni, intorno a una questione di lavoro delle madri che rimane aperta (con o senza articolo 18): perché in fondo, anche al cinquantenne dobbiamo far capire chi sono i veri nemici.

Che, altrimenti, "non so come resisterò/senza un nemico intorno"  (e a chi indovina la citazione, difficilie, menzione d'onore)

venerdì 16 marzo 2012

Tra sacrificio e martirio. La sottile linea rossa de' noantre





Ieri leggevo questo interessantissimo post di Mammamsterdam su Genitoricrescono: Ma che cos'è questa emancipazione (e se cliccate sul link giusto vincete un premio)

Una delle cose che mi ha colpito di più (al di là delle considerazioni socio-culturali di massima sul mercato del lavoro e dei servizi, che vi risparmio qui) è il tema del prendersi tempo per sé.

La questione della libertà personale (che può diventare individualismo becero, ma anche no - io, per esempio, prima di prendermi una vacanza da sola agognerei ad avere un weekend da sola con l'Ing., robe che si fanno solo per gli anniversari epici e poi i figli ti rinfacciano per tutta l'estate seguente), come è declinata in Olanda e come è declinata quaggiù.

Questo fa il paio con una serie di riflessioni sul tema del sacrificio (tema che sto affrontando sul versante delle scelte lavorative delle madri). Perché ogni tanto ho l'impressione che, quando si tratta di madri e figli, non si possa più parlare di sacrificio, vietato dire che i genitori fanno sacrifici per i figli, politicamente scorretto pensarlo, irresponsabile caricare i figli di cotanto fardello. Eppure, di fatto, è così: alzi la mano chi non ha rinunciato a qualcosa per i propri figli. Quello che non si può dire, è innanzitutto che si fanno dei sacrifici, e in secondo luogo che è che è bene che sia così, che il sacrificio come dono è una gran scuola per uscire da questo circolo vizioso di peterpanismo ad oltranza. Che il sacrificio è una cosa bella (per dirlo alla Padoa-Schioppa).

Perché mi viene da pensare che nella nostra cultura questa distinzione non sia per niente chiara, e che non potendo parlare di sacrificio (che fa troppo cultura cattolica, e quindi basta non se ne può più), il sacrificio finisca troppo spesso per diventare martirio: la madre dedita alla causa dei figli e del marito. Ma il martirio in questo caso è l'esatto contrario del sacrificio, che il martirio poi richiede risarcimento.

Che, invece, c'è una sottile differenza tra fare un sacrificio e farsi martirizzare dai figli (e dal marito, spesso e anzi sovente). Che c'è quella sottile linea rossa della libertà per sé, del rispetto per sé (e di un sano egoismo tipico delle persone che in qualche modo devono sopravvivere) che a queste latitudini ben poche donne (e nessun uomo) ci insegnano.

O ci vogliono insegnare con la ricetta standard, che poi è la stessa cosa che non insegnare un bel niente. Che ci sono donne che si martirizzano stando a casa a curare i figli, e donne che invece si sacrificano, lo sanno, e sono proprio contente di fare quella cosa lì; e donne che si martirizzano andando a lavorare a tutti i costi, e donne che invece vogliono proprio fare quella cosa lì. E donne che vorrebbero fare tutto, e quindi si martirizzano in tutti i campi ma non fanno sacrifici in niente.

Ma tra sacrificio e martirio, rimane la questione del tempo per sé: e allora io mi chiedo se le donne italiane hanno appreso il concetto del tempo per sé. O se gli fa troppa fatica.

mercoledì 14 marzo 2012

Sabato Sera


Il Sabato Sera della Grande Nonna
@Ristorante "I Quattro Palmenti"

"E quindi questi fondi non mi rendono un bel niente"
"Se penso che ho comprato i BOT al 3,5%..."
"Ah ah. Non sai che fondi ho comperato io"
"Ah sì?!?"
"All'8,45% lordo. Che netti comunque fanno un bel 6%"
"Così noi possiamo andare a fare il nostro viaggio in America. Ah però questa volta niente scalo a New York, voliamo direttamente a Los Angeles. Ah che disastro l'ultima volta a New York! Roberto si è perso nei negozi e stava per perdere l'aereo!!!"


Il Sabato Sera di Lorenza e dell'Ing.
@Home "Via del Sovraffollamento"

"E quindi avevo preso il volo Ryanair e me l'hanno cancellato, adesso devo capire come fare con l'albergo, era un early booking. I bimbi? Ma figurati, non ho fatto in tempo a dire a mia madre che non andavamo più che aveva già prenotato il suo viaggio in Portogallo"
"Beh, se vuoi andare in Grecia devi prenotare adesso che sennò poi costa troppo. Forse in Croazia è un po' più economico"
"Ma non fa freddo in Croazia?"
"E quindi ogni tanto chiedo all'Ing. se mi mantiene, ma l'Ing. non favella"
"Sai, i liberi professionisti oggi..."
"Non me lo dire, ho passato tutto il mese di gennaio a non dormire di notte pensando a come faccio a pagare le tasse a maggio." (o sarà giugno?)

giovedì 8 marzo 2012

Me and Mrs. Banks (8 marzo Reloaded)



Veri soldati in gonnella siam.
Del voto alle donne gli alfieri siam.
Ci piace l'uomo preso a tu per tu,
ma al governo lo troviamo alquanto scemo.

Lacci e catene noi spezzerem
e tutte unite combatterem.
Noi siam le forze del lavoro
e cantiamo tutte in coro:
Marciam! Suffragette, a noi!

Non puoi arrestarci o maschio
son finiti i tempi tuoi.
E' un solo grido unanime: Femmine, a noi!
Ben presto anche in politica seguire ci dovrai,
se il voto ancor ci neghi,
per te saranno guai!
Siam pronte al peggio,
anche a morire ormai.
Chi per il voto muor, vissuto è assai.
Femmine, a noi!

Ah! Lacci e catene noi spezzerem
se tutte unite combatterem.
Noi siam le forze del lavoro
e cantiamo tutte in coro:
Marciam! Marciam! Marciam!
Suffragette, a noi!

Non posso fare a meno di pensare, quando vedo questa scena, che Mrs. Banks aveva una tata fissa e due domestiche che si occupavano di casa e figli mentre lei era altrove, a fare la suffragetta. E che alle sue tate, certe idee non passavano neanche per l'anticamera del cervello.

Mi chiedo sempre se sia un privilegio poter combattere per i diritti, propri ed eventualmente altrui (e qui apro parentesi sul neo-femminismo di ritorno di alcune donne che lavorano e che combattono affinché altre donne possano stare a casa a curare i propri figli, che ci vedo qualcosa di perverso in tutto ciò), e quando vedo questa scena non so mai darmi una risposta.

lunedì 27 febbraio 2012

Di mattoncini rosa. E tanto altro ancora

A Natale la sottoscritta e l'Ing. si sono trovati a fronteggiare una questione oltremodo seria: Piccoletta ha deciso di ritagliarsi il proprio personale spazio nell'Universo del Mattoncino ma, dato che tale Universo è già stato occupato dal fratello, peraltro in modo alquanto trasversale, era necessario puntare su qualcosa del tutto originale.

Proprio in quei giorni arrivava la notizia dell'imminente uscita di un Lego fatto apposta per le bambine.


Un Lego per bambine?!?

Apriti cielo. La Somma Inventrice degli omini gialli che travalicavano qualsiasi genere, razza, religione, la paladina del "tutto uguale, tutti uguali", fa un prodotto per bambine con i mattoncini rosa.

Che le profezie dei Maya stiano per avverarsi?

Inizio con il pippone genderistico e i dove andremo a finire di questo passo, l'Ing. temporeggia:
"Aspetta almeno di vederlo, prima di giudicare".

Giusto. E così, per una fortunata serie di coincidenze e dato che ormai sono una mamma-blogger-markettara***, ho potuto davvero vedere Lego Friends in anteprima, tutta sola con Piccoletta, che Junior lapidario si è rifiutato di prendere parte a un simile consesso: "Robe da femmine", ha commentato sprezzante.




Piccoletta è stata completamente risucchiata nel vortice dei mattoncini rosa, fucsia, bianchi, verdi e celesti: ha montato Lego per due ore filate, seduta accanto a un bimbo dai riccioli biondi e gli occhi azzurri, riemergendo con la sua costruzione realizzata senza intrusioni dei super-esperti maschi di casa, felice come se fosse stata Brunelleschi: "Sfiiineeeeeente, mamma!", mi ha detto al termine dell'opera. Io mi sono goduta il pomeriggio con mia figlia e ho incastrato mattoncini.


Pink Stinks (soprattutto nel marketing)
Nuovi colori, alcuni molto belli (il celeste e il verde-Kermit) e nuove minifig, unico vero motivo di allarme nel Lego-pensiero del nostro Ing.: le ho scrutate per bene, con occhio attento e indagatore sugli stereotipi di genere. E. "Deliziose", come dice Piccoletta, niente a che vedere con le Winx o con quello che vediamo in TV da queste parti. Sono bambine, sono pulite. Fine.
E se la Somma Inventrice dell'indifferenziato fosse ancora più avanti, e fosse già andata oltre la cultura del genere e la riappropriazione delle differenza, maschile/femminile, giallo/rosa/marrone, e della parità nella differenza, e noi non ce ne fossimo accorti?
E poi, e questa è sicuramente la caratteristica più importante per un giocattolo, è un Lego giocabile da matti, esattamente come tutti gli altri. Anzi, a dir la verità è un po' più nuovo: dopo due ore passate a montare questi mattoncini, guardi sul catalogo Lego City e ti sembra un prodotto inesorabilmente marchiato Anni Settanta.

E' vero, la comunicazione ha voluto sottolineare più la differenza (Nuovo!! Lego per bambine!!, che fa tanto Donnee!! E' arrivato l'arrotino!!) che la continuità con le altre serie in commercio. Tanto più che esistono molte serie adatte ANCHE alle bambine: la fattoria, i cavalieri, la casa, il castello... Purtroppo sono tutte serie un po' dimenticate che io, se fossi il sig. Lego e volessi a tutti i costi conquistare il mercato delle bambine, potenzierei fuor da ogni dubbio. Senza dire che è per bambine, senza per forza fare i mattoncini rosa, così per una volta valorizziamo il prodotto e non la comunicazione.

Perché, e questa è una riflessione maturata in anni e anni di scatole di Lego montate, quello che ha fatto la differenza è stata la capacità di narrazione di queste costruzioni: le serie che sono andate meglio in assoluto sono quelle che si sono appoggiate sulle grandi narrazioni. Ed è lo sforzo che i giochi belli e originali devono fare, oggi come cinquant'anni fa (ma oggi in modo diverso, e oggi è più difficile perché i bambini sono molto sofisticati, sotto questo punto di vista): saper raccontare una storia ai bambini, al di là del gioco stesso. Lego Friends, almeno, ci prova e prova a promuovere anche una visione che non è per forza epica, ma è molto quotidiana: collaborazione, iniziativa, essere utili alla città.

Robe da femmine
"Junior, ma se ci inventassimo un Lego Friends da maschi?"
"Mhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh"
"Dai, che lavori possiamo mettere?"
"Inventore scienziato astrofisico la palestra di ginnastica il giornale l'officina delle macchine..."

E quello che volete voi.
Io voglio una redazione di giornale con un direttore bimba.


***Di mammedimarketing
Proprio mentre avevo nel taschino questo post la polemica sulle mamme-blogger-vendute-al-marketing rinfocolava sul blog di Loredana Lipperini, con tanto di De profundis sulla capacità critica e/o innovativa di noialtre (già solo su questo assunto si potrebbero scrivere dieci post, per quanto mi riguarda). Per conto mio, ho avuto la possibilità di sperimentare e vi racconto quello che ho visto con le mie riflessioni appiccicate a margine, né più né meno di quando vi racconto dei marciapiedi di Milano o sparo a zero sulle compagnie telefoniche. Ai miei dieci lettori, l'ardua sentenza.

giovedì 9 febbraio 2012

Quello che dicono, e quello che fanno




Ieri consegna simultanea delle due pagelle.
La prima, attesissima, pagella di Piccoletta (non vi sto a dire che emozione) e quella, altrettanto attesa perché non sapevamo proprio cosa aspettarci, del nostro Ing. Junior (che ormai è proprio Junior, non si può più dire Piccolo, "Piccolo a chi?" mi ha chiesto l'ultima volta, "Piccola sarà mia sorella")

E dunque.
Piccoletta ha due maestre eccezionali che la baciano, la incensano, mi dicono che è bravissima, che è una bambina da fotocopiare, e via di questo passo fin sull'orlo dell'imbarazzo mio personale. Di Junior, già si sa.

Per cui.
Junior ha avuto una pagella che il nostro Primo Ministro definirebbe sicuramente monotona: il massimo dei voti in tutte le materie, tranne una. Piccoletta ha avuto voti decisamente più bassi.

E quindi.
Al di là del mettere una pezza con Piccoletta, che giustamente non capisce sebbene noi si sia fatto ampio utilizzo di spiegazioni razionali anziché no, da ieri pomeriggio mi frulla in testa questa cosa:

Quello che dicono, e quello che fanno

Che è una massima che, da una certa età in poi, le donne iniziano ad utilizzare con gli uomini (avete presente, no?, quelli che dicono di amarti alla follia). Ma che è una massima che, al di là dell'educazione sentimentale, va applicata soprattutto in quegli ambiti in cui ti dicono che sei brava (anzi no, bravissssssssima, indispensabile, eccezionale) ma poi non monetizziamo mai tutta 'sta incredibile bravura.

E quindi, le nostre massime zen casalinghe per il secondo quadrimestre sono:

"Junior, non aspettarti che siano gli altri a dirti che sei bravo. Diglielo tu. E dubita sempre di quelli che ti dicono che sono bravi."

"Piccoletta, non stare ad ascoltare chi ti dice che sei brava e poi non. Vai per la tua strada"

Mo' me lo segno pure io, eh.

martedì 31 gennaio 2012

Prima i bambini. Post di una mamma indignata





Trovo incredibile che si ricordi il mio nome. Ma forse è perché sono una delle poche presenze, nella sua vita lavorativa, al di sotto dei settant'anni. Sbaglia a farmi le impegnative per gli esami. Sgrana i suoi occhioni e mi chiede: "Allora cosa facciamo, prendiamo l'antibiotico, cosa dice?". Parla lentamente, sottovoce, e ogni volta mi chiedo come faccia ad avere tutti quei figli. Ha appena imbiancato lo studio, con un trompe-l'oeil che avrà si e no quarant'anni, e due balconcini al terzo piano a strapiombo sul cortile interno.

Intessiamo strampalate conversazioni mattutine al telefono, una più addormentata dell'altra. E' stata l'unica a dirmi, una volta: "Ah ma già che lei è una mamma normale", concedendomi di andarle a fare visita. Sa usare la segreteria telefonica come pochi altri, da lei ho imparato che esiste il prefestivo, fa visite lampo ma ha l'occhio lungo, le sue diagnosi telefoniche sono per lo più azzeccate, e ogni volta mi chiede se abbiamo fatto la cura con il Biomunil o con l'Immunomix. E' appassionata di montagna e di Lego. Ogni tanto mi fa solennemente incazzare. Ha uno studio al piano terreno con un sacco di aggeggi colorati.

E' in discussione un decreto legge per togliere il pediatra ai bambini al di sopra dei sette anni, che possono agevolmente essere curati dal medico di base.

Non affannatevi a cercare la notizia sulle prime pagine dei giornali online, prima vengono i finti tagli agli stipendi dei parlamentari e poi l'ondata di freddo che ci sta per colpire. Trovate però già qui una mezza smentita

Già me lo immagino: "Allora signora cosa facciamo, gli diamo l'antibiotico oppure no? E poi se volesse provare questa cura... Ma nooooo che bisogno c'è di portarlo dalla specialista, signora"

Toglieteci la scuola, toglieteci il pediatra.
Toglieteci la possibilità di avere un lavoro stabile e decentemente retribuito.
E non venite a raccontarci che siamo noi che non lo vogliamo.
Chiedeteci se i nostri figli andranno all'Università.
E poi chiedeteci che università troveranno.

E poi non chiedetevi come mai in Italia non si fanno (quasi) più figli, ma chi sono quelle pazze che ancora mettono al mondo dei figli nel nostro Paese.