mercoledì 29 giugno 2011

No Title, #citazioni

«Accettare l'ambivalenza è come accettare di essere umani e questo ci rende più autorevoli svincolandoci da comportamenti autoritari, ma soprattutto dà un senso alla nostra "naturale" incoerenza. Essere contenti e allo stesso modo un po' malinconici quando vediamo nostro figlio entrare finalmente all'asilo senza piangere, così come quando esce da solo per la prima volta o sempre da solo parte per la sua prima vacanza, diventeranno sentimenti a noi familiari, condivisibili e meritevoli di essere rivelati.
Ciò che dovremmo evitare è l'ambiguità, che veicola un messaggio confuso e mai rispecchiante il nostro reale punto di vista.
(...)
L'ambiguità alla lunga ci fa sentire in colpa e spesso, a parte internet, sono proprio i sensi di colpa a determinare quella distanza che sentiamo da loro. In certi casi i sensi di colpa nascono da quello che facciamo, a volte inconsapevolmente, per fare in modo che essi siano esattamente come ce li siamo immaginati (neanche fossero i nostri avatar!). (...) Ma se tale comportamento diventa eccessivo, fatalmente distoglie la nostra attenzione da particolari momenti della loro crescita, dove hanno necessità di sentire rispecchiata la propria spontaneità. Non ci accorgiamo più di quell'istante preciso in cui hanno bisogno di essere visti e considerati, e non semplicemente guardati senza partecipazione. Quell'istante rappresenta, secondo me, il massimo della vicinanza possibile, una specie di fusione emotiva che ce li fa conoscere e sentire vicini come nessuna forma di controllo potrebbe fare».

Federico Tonioni, Quando Internet diventa una droga. Ciò che i genitori devono sapere, Fetrinelli, 2011.

martedì 28 giugno 2011

Il silenzio è sempre d'oro?


Tempo fa Lanterna dedicò un post al suo "peggior difetto". Un bel po' di tempo fa. Non ricordo cosa commentai allora, ma quel post mi ha fatto molto riflettere su quale sia il mio peggior difetto.

Alla fine di questa lunga elucubrazione, sono giunta alla conclusione che uno dei miei peggiori difetti è il silenzio. (Che, scritto da una che ha un blog che "so tutto di te perché leggo il tuo blog", fa ridere).

Molti, anche molti proverbi popolari, affermano che il silenzio sia una virtù: potremmo stilare una lunga lista di detti sul fatto che "il silenzio è d'oro". E' vero, il silenzio ci protegge e ci semplifica la vita. Ci sono periodi (anche storici) in cui è probabilmente così, ma ci sono momenti (anche storici) nei quali il silenzio è in realtà una colpa senza perdono.

E quindi, come tutti i difetti e i peccati, anche il mio silenzio assume varie gradazioni a seconda della gravità della situazione. C'è un silenzio veniale, e c'è un silenzio capitale. E' il silenzio di chi accumula silenzi veniali e silenzi meno veniali. Potrebbe essere il silenzio prima della tempesta: prima o poi arriva la classica goccia che fa traboccare il vaso, e allora si salvi chi può.

Ma la tempesta potrebbe non arrivare: perché prima della tempesta, c'è l'ultima spiaggia del silenzio come peccato capitale, c'è il silenzio del distacco, dello scivolare via. Non sono attaccata ai posti, non sono attaccata ai lavori, forse l'unica cosa alla quale sono attacata è un'idea di me (perché sì, per scrivere un blog bisogna essere un bel po' narcisisti): e quindi, il mio silenzio è un lento scivolar fuori da luoghi, persone e situazioni che, nel silenzio, mi hanno stremato, rotto le palle, deluso, fatto incazzare, o semplicemente non mi hanno voluto. Può essere anche un silenzio fatto di sorrisi, frasi di circostanza, relazioni civili tra persone, per carità. Mi rendo conto che questo silenzio "salva" le relazioni formali, e in certi contesti le relazioni formali sono sostanziali. Ma mi chiedo anche quanto siano sostenibili, e per quanto tempo, e a discapito di quale sanità mentale.

Raramente le persone mi vedono veramente incazzata (io sono una che mentre stava partorendo la ginecologa la guardava e le diceva: "Ma no signora, niente epidurale, non sta soffrendo, non vede che bella faccia che ha?" e dopo un'ora mia figlia era nata in sala travaglio davanti a una platea di ostetriche).

E quando sono davvero molto, molto, molto incazzata mi chiudo in un mutismo tombale. La mia pancia tenta di elabora modi civili e non banali di esprimere la rabbia e la mia mente si rende conto che forse qualche piatto o qualche libro volante a volte sarebbero la soluzione migliore. E forse sarebbe più corretto che la pancia ragionasse come pancia e facesse volare i piatti, e la mente ragionasse come mente e capisse come elaborare razionalmente le incazzature, ma insomma.

E così, alla fine, mi rivolgo a lei: Carol-l'estetista, che sulla battaglia contro il brufolo dell'incazzatura silenziosa sta costruendo la sua fortuna.

venerdì 24 giugno 2011

Quanto vale un sms


Ci sono persone, amiche, che ti insegnano la passione per la vita.

E ci sono persone, ragazzi e ragazze vere (non come noi che facciamo finta di esserlo ancora) che in fondo non hanno passioni nella vita. Ma forse quello che aspettano è qualcuno che faccia capire loro quanto vale avere una passione.



Ieri sera sono stata a un aperitivo per la raccolta fondi di Invertiamo la rotta, un progetto di scuola vela per adolescenti che non hanno passione per la vita. E mi sono chiesta quanto può valere un sms. Tanto più che oggi è l'ultimo giorno a disposizione per mandarlo.


sabato 4 giugno 2011

Un po' mamma, un po' tigre


Ho iniziato a leggere Il ruggito della mamma tigre in treno, aspettandomi l'ennesimo manuale materno-pedagogico scritto da Amy Chua, docente a Yale, mamma cinese di seconda generazione alle prese con due figlie. Ho scoperto una storia ironica e appassionante, un libro a volte estremamente divertente (imperdibile il capitolo nel quale l'Autrice tenta di applicare il proprio metodo educativo al cane scemo), a volte commovente. E' la storia di un mezzo fallimento e di un successo ancora più grande, di come in fondo è la vita a cambiarci, ed è una riflessione autobiografica sull'incontro di due sistemi educativi estremamente differenti, quello cinese basato sull'imperativo del dovere e del massimo impegno e quello americano (definito genericamente e un po' ironicamente "occidentale") basato sulla (falsa e accomodante?) preoccupazione per benessere dei figli.

Ho letto questo libro in un momento del tutto particolare, alla fine di un anno scolastico che mi lascia con molte domande irrisolte, molte fatiche, molte cose da "risistemare" nella dis-organizzazione sia familiare sia mia personale. Ma leggere questo libro tutto d'un fiato mi ha regalato alcuni spunti di riflessione molto utili che voglio condividere con voi.

1. TEMPO. Amy Chua, docente a Yale, mamma terribile e cattivissima, dedica una quantità di tempo e di attenzione alle proprie figlie che noi neanche immaginiamo. Quella del tempo da dedicare ai propri figli è una grande questione irrisolta delle mamme italiane, mia in particolare avendo un figlio che frequenta il modulo e che quest'anno, per il primo anno, ha iniziato a dover fare i compiti a casa in modo serio. Il momento dei compiti si è trasformato alternativamente in momento di supplizio, momento di assenza (mia), momento di sfuriate, momento zen, momento di mal di pancia (di mio figlio). Sento moltissimi genitori che si lamentano del tempo che devono dedicare ai propri figli per lo studio. Vedo molti ragazzini delle medie che trascorrono il pomeriggio da soli. Anche io ho trascorso questo anno in modo altalenante: una parte di me a ripetere che mio figlio deve fare i compiti da solo, e che con tutto quello che ho da fare non posso certo passare pomeriggi e mattine a fare i compiti con lui, mentre l'altra parte intuisce che lui ha bisogno che gli venga insegnato a concentrarsi, a stare lì, a mettere la testa su una cosa un filo più difficile. Direi che dopo aver letto Il ruggito della mamma tigre ho preso qualche importante decisione su come gestire la questione, e non perché "lo fa lei", ma perché prima del punto 1 c'è il punto 2.

2. UN'IDEA Amy Chua ha un'idea ben precisa sull'educazione che intende impartire alle proprie figlie, sui sì e sui no, su cosa è importante e cosa non lo è (importante: eccellere; non importante: passare i pomeriggi a giocare con gli amici). Io mi stupisco sempre quando un genitore prende una posizione netta rispetto a qualcosa che sta diventando molto mainstreaming (dal cellulare a dormire fuori di notte), in fondo lo trovo così desueto e affascinante. E sapete perché? Perché ha la forza di sottrarsi all'imperativo dell'"integrazione a tutti i costi". Una delle grandi ansie dei genitori di oggi è che i figli crescano "socialmente ben integrati", e alla fine il conformismo dilaga. Che i figli non debbano soffrire troppo, che il loro benessere psicologico sia sempre tutelato, che "stiano bene". Personalmente, credo che sentirsi dire di no a volte, per un bambino, sia impagabile: quantomeno, dimostra che i tuoi genitori pensano a te e hanno in mente un'idea di educazione per te, hanno degli obiettivi, vogliono che tu possa arrivare proprio là. Non è bellissimo?

Insomma, la morale della favola è che da una settimana a questa parte stresso il povero Ing. cercando di convincerlo a leggere Amy Chua. Che, se proprio devo fare la mamma tigre, almeno la facciamo in due.