sabato 27 novembre 2010

Storia di mio figlio, che a 18 mesi non voleva più mangiare

Questo è un post che so di dover scrivere da qualche settimana, e forse da molto più. E' un post che nasce da un commento di MammaMoglieDonna, ed è a lei dedicato. E' un post che si è fatto attendere un po', perché non è proprio facile scriverlo - vuol dire per me mettere a nudo una parte di me che molti di coloro che leggeranno con occhio giudicante e senso di superiorità non capiranno. Ma so che molti, moltissimi altri, capiranno. E, soprattutto, spero possa servire a chi, come me, deve affrontare il problema di un bambino che non mangia.

E' settembre, ed è il 2004. Mio figlio ha 18 mesi e, di lui, ho un'immagine nitida, di una sera chiara di fine estate in cui si affaccia alla porta della cucina, mentre sto preparando la cena. Mi dice: "Mamma, io non voglio mangiare, voglio il latte con i biscotti".

E poi, una serie di flash.
La pediatra che dice: "Il bimbo non deve capire che il cibo è un ricatto, sennò è finita"
La maestra del nido che, a dicembre, ci dice: "E poi ho capito che, quando non mangia, non devo viverla come una sconfitta. Perché, se un bimbo non mangia, tu la vivi come una sconfitta", e così scopro che è da settembre che anche a pranzo fa storie.
La Grande Nonna che lo rincorre per casa con il piatto, o che lo fa mangiare davanti alla TV, imboccandolo.

Abbiamo deciso di non dare troppa importanza al cibo, ma ugualmente mio figlio ha capito ben presto che il cibo poteva diventare un potente ricatto.
Eravamo convinti (perché questo è il tipico errore che si fa con i figli primi, quantomeno) che "prima di tutto la disciplina", anche a tavola.
Mi dicevo che in fondo anche mio cugino, fino ai 20 anni, ha cenato a latte e biscotti. Perché mio figlio no?
Molto tempo dopo abbiamo inventato il gioco dell'"indovina gli ingredienti", funziona molto soprattutto con i risotti dell'Ing.
Molti biberon di latte e biscotti sono stati comunque la coccola serale, prima della nanna.

Insomma, siamo andati per tentativi e fallimenti, proprio come in un esperimento scientifico.
Tra alti e bassi, periodi di "buona" e periodi più difficili.

Intanto, sapendo che il cibo non è solo cibo, ho dovuto fare un lungo lavoro dentro di me.
Su quello che voleva dire mio figlio per me.
Su come avevo costruito il suo immaginario dentro di me.
E su come sapevo accogliere il bambino che lui è, e su come non avevo saputo accoglierlo.
Su quello che avevo passato, su quello che avevo sbagliato, su quello che non era proprio tutta colpa mia, ma stava lo stesso in carico a me, perché io avevo in carico lui.
E' stato un lavoro che ho fatto in solitaria, e in solitudine.
Che non è lo stesso, ma a volte anche sì.

E così è nata Piccoletta, abbiamo attraversato la scuola materna con molti pranzi buttati nel cestino, lo abbiamo visto acquisire via via sempre più sicurezza, abbiamo cercato di far capire ai nonni che se anche non mangiava quella sera, avrebbe mangiato un'altra volta (con il risultato che ora i nonni, quando mangia, si profondono in sonori "Braaaaaaaavoooooooo", provocando le ire dell'altra).

Ricordo che a settembre 2008, poco prima che iniziasse la scuola elementare, dopo un'estate difficile, al controllo annuale della pediatra me ne uscii con un: "Sono disposta ad andare dallo psicologo, ma risolviamo questa vicenda del cibo". La pediatra alzò il sopracciglio e mi rispose con una delle sue classiche frasi lapidarie: "L'anoressia fino ai 6 anni è normale" (che fa il paio con: "Ho un paio di ragazzine anoressiche, la colpa è sempre della mamma", detta in altra occasione ma della quale non ho potuto fare a meno di prendere nota)

Tecnicamente, dunque, ai 6 anni mancavano ancora quasi 4 mesi.

Rifeci la mia borsa e continuai.
Ho incontrato Aurora, che si è dimostrata prima una mamma, e poi un'amica, davvero preziosa e discreta.

In effetti non posso proprio dire, ora, che mio figlio non mangi.
Rimane il fatto che è stato messo al tavolo della maestra, sotto osservazione, e che in particolare una maestra lo incalza nella mezz'ora a disposizione che i bimbi hanno per pranzare.
E rimane il fatto che il momento della cena è il momento in cui fa i capricci, se è stanco, se c'è qualcosa che non gli quadra, se ha avuto una giornata difficile. O se è l'odiata baby sitter a preparargli il pranzo o la cena.

"Bimbi, questa sera faccio gli gnocchi"
"No mamma voglio la pasta!"
"No Topo, o la zuppa di zucca o gli gnocchi, non posso preparare per cena tre primi!"
E così, quando è ora di mettersi a tavola, scoppia il pandemonio.
Io mi arrabbio, lo faccio sede davanti al piatto con l'ormai classica: "Non mangiarli, ma stai lì seduto"
Lo vedo piangere silenziosamente.
Lo guardo, davanti al piatto pieno, e sento quell'angoscia e quel senso di impotenza che anche io, a volte, ho provato davanti ad un piatto pieno.
"Dai Topo, vieni in braccio alla mamma"
Lo prendo in braccio, avvicino il piatto.
Chiede il tris, ma di gnocchi non ce ne sono più.
E' successo due sere fa.

Perché i figli - certi figli - ti obbligano a fare i conti con te stessa, e non si accontentano di cibo di plastica, ma ti chiedono un po' di cuore in più. E forse questo pezzo in più bisogna andarselo a prendere da qualche parte, ogni tanto.

E così mi sono accorta or ora che questo post, in fondo, partecipa al blogstorming di questo mese.



mercoledì 24 novembre 2010

Foto di classe


Vi ricordate le nostre foto di Natale? Uno per uno, seduti su un banchetto con il nome della classe di fianco, una fotografia che veniva stampata con la scritta Buon Natale in rosso e delle faccine sorridenti, sdentate e abbagliate da flash troppo potenti. Il grembiulino bianco, quello bello per l'occasione.

Ecco, dimenticate tutto ciò.

Intanto, la foto di Natale è diventata foto di classe. E su questo, già, si potrebbe fare una serie di considerazioni sociologiche sull'educazione all'individualità, l'omologazione di gruppo, la prevalenza della massa sul singolo e cheneso.

Ma non è finita qui, perché la foto di classe diventa anche momento in cui scatenare le fantasie più perverse del fotografo sciur Brambilla. E quindi la foto di classe diventa a tema.
Anno 2009: gli Anni Trenta (meglio non chiedersi perché)
Anno 2010: cosa vuoi fare da grande?

I bimbi, quest'anno, devono presentarsi alla foto di classe vestendo i panni della professione che intendono svolgere nella loro vita adulta.

Interno sera, a cena.
"E quindi, Topo, cosa vuoi fare da grande?"
"Il politico!"

Sospensione del giudizio.

"Mmmhhhh... E come ti vesto, da politico?"
"Come Berlusconi"

Sconforto acuto, fitta al cuore e mancamento di forze.

Interviene Piccoletta: "Siiiii anch'io faccio il politico e mi vesto come Berlusconi"

Necessità assoluta di sali per rinvenire

"Ragazzi miei, se anche non diventate come Berlusconi la mamma è solo contenta", mentre già mi vedo già con l'aureola in testa, in perfetto stile iconografico-Mamma Rosa. Un'immagine raccapricciante che mi fa immediatamente tornare con i piedi per terra.

"E cosa faresti, se fossi un politico?"
"Beh, per prima cosa, tapperei tutti i buchi delle strade" (da queste parti sembra di essere in guerra, da un mese a questa parte abbiamo in giro ruspe, mezzi pesanti e cingolati che hanno rotto strade, chiuso incroci, traforato, martellato, scavato, transennato. Il teleriscaldamento che avanza)

Riprendo rapidamente le forze

A quel punto interviene l'Ing., inizia un pippone tra i due sulla politica come servizio o come esercizio del potere, e il risultato non si fa attendere.

"Va bene mamma, allora faccio lo scienziato".

Otto giorni dopo, interno sera, a cena.
"Senti mamma, allora facciamo così: io faccio lo scienziato, così faccio un sacco di soldi, e poi faccio il politico"
Non ho avuto cuore di dirgli che, a fare lo scienziato, sarà difficile diventare ricchi.

Intanto l'immaginetta di Mamma Rosa con l'aureola in testa mi perseguita.

mercoledì 17 novembre 2010

Fuga d'amore


Progetto una fuga d'amore.
Lascio i bimbi a dormire dalla Grande Nonna, un venerdì sera.
E poi scappo.
Non ho bisogno di andare lontano.
Basta un sabato mattina di silenzio, poltrire nel letto fino a mezzogiorno, uscire a pranzo alle due, andare al mercatino, gironzolare da soli nel caos della città.
Noi due, da soli.

"Possiamo anche andare a fare un brunch. Basta che non ci spennino".

L'Ing. sa sempre come venire incontro alle aspirazioni romantiche di una donna.

sabato 13 novembre 2010

La paranza, è una danza, che si impara nella latitanza...


Dopo quindici giorni di latitanza (e non solo dal blog, ma anche da casa), il minimo che puoi promettere a tua figlia è: "Sì tesoro, ti prometto che venerdì esci all'una, e nel pomeriggio andiamo all'Ikea a prendere tutte le candele profumate che vuoi". Nel frattempo ti sei completamente persa i passaggi attraverso i quali tua figlia cinquenne formula esplicita richiesta di andare all'Ikea a prendere le candele profumate, ma insomma, non è il caso di sottilizzare.

Giovedì mi chiama la persona con cui ho un impegno fissato per venerdì mattina.
"Scusa ma venerdì non riesco ad arrivare per la riunione alle 9:30. Possiamo fare nel pomeriggio?"
"Ehm... Veramente... Mi spiace, ma nel pomeriggio proprio non posso. Facciamo pranzo e riunione fino alle 3? Dopo, davvero, ho un impegno IMPROROGABILE"
"Va bene dai, per pranzo allora"

Giovedì compaio gloriosamente a prendere i miei figli, entrambi impegnati alla stessa ora in palestra fino alle 6 del pomeriggio (e non vi dico l'ansia di arrivare tardi!). Piccoletta mi vede, mi si getta al collo con un "Maaammmaaaaaaa" stile Anna dai Capelli Rossi e dopo pochi minuti, non so come, mentre aspettiamo che Piccolo Ing. finisca la lezione di scherma, scivoliamo di nuovo sul pericoloso discorso della gita all'Ikea a prendere le candele profumate.

"Allora, viene a prenderti la nonna all'una e poi la mamma arriva, accompagniamo Piccolo Ing. alla festa e noi andiamo a fare shopping"
"MAMMMMMAAAAAAAA MI AVEVI PROMESSO CHE VENIVI TU A PRENDERMI ALL'UNA!!!!!!!" e inizia un pianto dirotto, tipo Rémi posseduto.

Me la prendo in braccio e cerco di consolarla, con un interlocutorio "Vediamo, dai" che in genere con l'altro funziona ma che con lei non fa altro che peggiorare la situazione.

Piccoletta strilla come una iena, casomai qualcuno degli astanti non avesse inteso bene che: "MA TU MI AVEVI PROMESSO CHE VENIVI A PRENDERMI E ADESSO NON VIENI PIU'UUUUUUUUUUUUUUUUUUUU!! ME L'AVEVI PROMEEEEEEESSOOOOOOOOOOOO".

Cincischio in coccole, mentre penso che non è vero che le avevo promesso che sarei andata io: le avevo promesso che sarebbe uscita all'una, ma questa è evidentemente una sottigliezza che Piccoletta non può cogliere.

Ci provo, mi sforzo, ma non riesco davvero a sentirmi in colpa. Dovrei?
Sto solo cercando di tenere tutti insieme, e poi il mio mantra è: "Vedrai che l'anno prossimo non sarà più così, sarò disoccupata"
Anche, se lo ammetto, in quel momento avrei preferito essere sull'isola di Ponza.