domenica 23 dicembre 2012

giovedì 13 dicembre 2012

Piano_C, la terza via c'è


A volte uno si sente sfigato, e invece è soltanto un pioniere.

Cristoforo Colombo, quando ha capito di non essere arrivato in Cina, avrà passato almeno cinque minuti della sua vita a dirsi "Belin, che sfiga".

Quando sono rimasta senza lavoro dopo la prima maternità, e pure dopo la seconda, nel vortice di aerosol, pappe e passeggini, ciucci e pannolini, mi sono data ben di più che della sfigata (fate voi le dosi, aggiungete a piacere, che si sa che l'autostima di una donna, italiana per di più, a cavallo del Nuovo Millennio non può certo essere paragonabile a quella di un maschio vissuto nel XV secolo).

Ma ho sempre lavorato. Mi sono ritrovata a seguire un percorso lavorativo a tornanti, con una collaborazione libera dal sacro vincolo dell'orario d'ufficio. E mentre tutti avevano giorni lavorativi, e ferie, e tredicesime, io avevo una scrivania mobile (prima in camera, poi in ingresso, infine in soggiorno, con una geografia variabile come i cambiamenti delle stanze di casa), contratti sempre diversi, un'identità indefinita.
Una che metteva insieme tutto: casa, lavoro, pomeriggi con i figli, serate a lavorare.
Precaria, libera professionista, cosa sarò? Boh. Forse, solo un casino.

Mentre macinavo chilometri, ricevute dell'asilo nido, tate peggio di mine vaganti, lavatrici, pomeriggi al parco, cene preparate a scapicollo, intorno a me vedevo un mondo che era solo un aut aut: placide madri di famiglia dedite esclusivamente ai loro pargoli, e impareggiabili madri-manager con un lavoro full-time, nonni full-time e Tata for Dummies in tasca.

Non è stato facile, per tanti motivi, ma (mi rendo conto ora) anche perché ero sola.

Poi sono successe delle cose. E, in ordine cronologico:
1. Ho aperto un blog. E ho scoperto che l'Italia è piena di imprenditrici e libere professioniste che a) sono state cacciate dal loro posto di lavoro dopo la maternità; b) hanno lasciato per esasperazione il loro posto di lavoro dopo la maternità; c) si sono rotte del lavoro che facevano e hanno lasciato il loro posto di lavoro investendo tempo e vita in altro.
Beninteso, per me una donna che sceglie di lasciare un'azienda, anche per i più sacrosanti motivi, è sempre una sconfitta. Ma di questo ne parliamo un'altra volta.

2. E' iniziata la crisi. E adesso ci sentiamo tutti precari (tiè).
Anche se, non dimentichiamocelo, continua a esserci una buona differenza retributiva tra sentirsi precario ed essere precario.

3. A Milano hanno iniziato a nascere gli spazi di co-working.
Non ci sono mai andata. Il primo era troppo scomodo per me, il secondo troppo macchinoso, il terzo è stato avviato in un anno che è stato un bagno di sangue, e ancora adesso mi chiedo come ho fatto a pagare le tasse, quell'anno lì.

Poi è nato Piano_C, che è un co-working per le mamme - per le donne (e per i papà accompagnati dai bambini). E' un luogo con 12 postazioni di lavoro e sale riunioni che propone uno spazio e servizi di accudimento per bambini 0-3 (non è un asilo nido, non è un tempo per famiglie, boh, non si sa come definirlo, chissà come mai, forse solo perché è una "cosa" innovativa). Quando l'ho visto, davvero, mi si è aperto il cuore. E non solo perché è un bel posto.

Ma perché è proprio quella cosa lì, che serve, alle madri: uno spazio per professioniste che sono in una fase di ridefinizione della loro vita, uno spazio in cui naturalmente incontrarsi, confrontarsi, scambiare idee e professionalità e prospettive, senza il sopracciglio alzato del giovane nerd (che palle questa, una madre!) o l'affanno del professionista (una madre, e pretende pure di rubarmi il lavoro, ma pensa te). Uno spazio in cui la flessibilità oraria del servizio di cura è vera, e non presunta.

Un ghetto? Io credo che da lì le mamme non usciranno con una ricetta per il brodo di verdure in più, ma con idee in più su se stesse, sui propri obiettivi professionali, e anche (perdonate il parolone) nuove possibilità di business. Perché, lasciatemelo dire che sono un'esperta, si possono avere un sacco di (ottime) idee di business: il problema è trovare persone competenti con le quali realizzarle (o almeno provarci), queste idee.

Perché è proprio una cosa, che serve alle mamme libere professioniste: incontrarsi, e investire su di sé, mettersi insieme per credere nelle proprie idee. E non preoccuparsi se nessuno riesce a incasellarle, e neanche loro ci riescono.Che vuol dire che sono delle pioniere, ma sarà bene che lo capiscano subito, e non ci impieghino dieci anni come la sottoscritta.

martedì 4 dicembre 2012

I miei nonni (e me)


Nonno Giuseppe nacque nel 1898, avevo un nonno nato nell'Ottocento! Non solo. Aveva combattuto la Prima Guerra Mondiale, guidava un camion sulla linea del Piave e portava munizioni e viveri dalle retrovie in trincea. La sua prima figlia nacque nel '29. Viveva, insieme ai suoi fratelli, in una cascina davanti alla quale passava il tram che partiva da Milano, e oggi si direbbe "faceva l'imprenditore" (mentre in realtà produceva latte e formaggi, e si alzava alle 4 del mattino tutti i santi giorni). Rimase vedovo a cinquant'anni, e non si risposò mai. Quando i figli furono grandi, li portò sulla linea del Piave, un ritorno sui luoghi dove aveva combattuto: credo sia stato l'unico viaggio di mio nonno da qualche parte. Non ha mai avuto una macchina, ma la sua famiglia possedeva una carrozza. Andava in bicicletta, non andava in ferie ad agosto, ma passava un mese al mare a febbraio. Leggeva, leggeva tantissimo e continuò a leggere finché gli fu possibile: saggi storici sul Risorgimento e sulle Guerre Mondiali, una biblioteca ben nutrita e una certezza, quando era il momento di fargli un regalo. Non era un gran parlatore, ma assomigliava, nel piglio, a Francesco Giuseppe, in quei quadri che lo ritraggono alla fine del suo Impero - gli mancavano solo le marsine e i favoriti. Aveva una routine ferrea, e non usciva mai senza il cappello.

Il nonno Livio nacque nel 1908. La maestra della scuola elementare, sostenendo che il nome Livio non esisteva, andò all'anagrafe e glielo cambiò in Elivio, e dato che la maestra - insieme al sindaco - costituiva l'autorità indiscussa del paese, nessuno disse niente e mio nonno, per l'anagrafe italiana, rimase Elivio per tutto il resto della sua vita. A militare incontrò il re, che era basso e rosso di capelli come lui. Al tempo in cui si conobbero, la nonna era fidanzata con un altro, ma il nonno decise che sarebbe diventata sua moglie. E così fu. Sono stati sposati per cinquant'anni. Gestivano un'enoteca (una mescita di vini dove si spillava barbera e ogni tanto arrivava il salame da Piacenza) e, a tempo perso, mio nonno faceva l'intermediatore immobiliare (di terreni agricoli) e mobiliare (di cavalli). A pranzo e cena non beveva acqua - fa male alla digestione, diceva - ma aveva sempre una caraffa da birra piena di barbera. Fumò per circa settant'anni. Al precetto di confessarsi e comunicarsi almeno una volta l'anno per Pasqua, lui rispondeva andando a confessarsi - irrimediabilmente - il Lunedì DOPO Pasqua. Negli ultimi anni, sentii spesso mia nonna preoccuparsi, a tal riguardo, per la salvezza della sua anima. Nutriva una grande ammirazione per Almirante, ma ha sempre votato DC, sostenendo che il referendum del '46 fu un grande broglio elettorale. Passava i pomeriggi al bar, giocando a scopa, e fino a ottant'anni suonati era in grado di ricordarsi tutte le carte. Le sue scarpe erano sempre lucidissime.

Penso spesso, ultimamente, ai miei nonni, e alla loro vita. Hanno visto due guerre mondiali, e dopo le guerre hanno visto il mondo in cui sono nati sparire  - letteralmente - sotto il cemento. Avevano forse nostalgia della loro giovinezza, ma non erano attaccati a un'idea di mondo - così tante idee di mondo avevano visto passare sotto i loro occhi, che avevano capito che forse non era il caso di attaccarsi troppo a qualcuna. Non esisteva l'idea del posto fisso, e neanche quella opposta del "far carriera". Gli ospedali erano l'extrema ratio, si nasceva e si moriva in casa, e la stragrande maggioranza non arrivava alla licenza di quinta elementare. I matrimoni duravano sì e no quattordici anni, proprio come adesso, non perché ci si separava ma perché uno dei due moriva giovane, e il figlio maschio aveva più diritti e possibilità delle figlie femmine.

Hanno avuto una vita difficile, ma hanno trascorso una vecchiaia serena. E lunga. Penso spesso a loro, non solo con affetto, ma chiedendomi se la mia traiettoria di vita sarà in qualche modo simile alla loro, e in quali passi ricalchiamo quelli che loro stessi hanno compiuto.