Lascio questa giornata bella e piena per i miei bimbi con un sottile velo di malinconia. Come quando lasci qualcosa, che sai non sarà più così.
Temo che questo sarà l'ultimo Natale in cui il Piccolo Ing. - e, di conseguenza, Piccoletta e, di conseguenza, tutti noi - potrà godere dell'attesa per l'arrivo di Gesù Bambino, nella notte magica di Natale. Non so se mio figlio sa e non dice, o se sospetta qualcosa, o se invece è ancora davvero convinto. L'anno prossimo sarà in quarta elementare, e temo che non andremo più in là.
Ma non importa.
Natale è anche finzione sotto tanti altri punti di vista... Per ora con i bimbi ci godiamo il lato migliore della finzione e so già che, quando non ci sarà più, mi mancherà tantissimo. Ma ho imparato, quest'anno, ad apprezzare lo sforzo di responsabilità dei grandi di far sembrare ai piccoli che è tutto a posto e che è davvero festa. Non trovo che sia ipocrisia, trovo che sia un atto di responsabilità.
Temo che questo sarà anche l'ultimo Natale per una serie di "aggiustamenti" che sono giunti davvero al capolinea, ma quello lo lasceremo decidere all'anno che viene.
Ecco, il nostro Natale di passaggio è stato molto bello, e un po' dolceamaro come i bimbi che diventano grandi e questa vignetta di Altan
sabato 25 dicembre 2010
martedì 21 dicembre 2010
Educazione sentimentale per Piccoletta
Antefatto 1
Mia figlia è nella fase iper-romantica in cui sono immerse molte bambine, che credono che l'amore sia più o meno come ce lo racconta Rapunzel (fase benedetta, dalla quale nessuna bambina che è in noi vorrebbe mai uscire)
Antefatto 2
Crescere, in casa nostra, non è compito facile. Soprattutto quando hai un padre che, compiuti i cinque anni, decide che è ora di iniziare ad essere introdotti alla conoscenza approfondita della musica pop nella sua espressione più geniale, ossia i Beatles. E per fare questo, dotato di CD con i più grandi successi, ogni volta che siamo in macchina scatena una sorta di Sarabanda in cui i piccoli sono chiamati ad indovinare chi è il cantante di Yellow Submarine, piuttosto che di Eleanor Rigby o Hey Jude.
Domenica, in macchina.
Dopo l'immancabile Xmas (War is over), che scatena un pandemonio di "John/Ringo/Paul" sul sedile posteriore, passa in radio Born in the USA (fa Natale anche quello, si sa).
Mamma temeraria: "Tra un po' papà vi introdurrà anche all'arte di questo signore, quando sarete abbastanza grandi. Si chiama Bruce Springsteen, ed è americano. No, lui è vivo, papà lo ha anche conosciuto"
Papà soprapensiero: "Sì, avevo anche l'autografo. Ma l'ho regalato"
Mamma incosciente: "Ah sì?!? E a chi?"
Papà fa una faccia esplicativa
Mamma con chiari istinti suicidi: "Aaaaaah, ok, a una fidanzata"
Papà riparatore: "Era una fan sfegatata..."
Piccoletta con le antenne rizzate: "Ma non era mamma, la tua fidanzata?!?"
Mamma riparatrice: "Ma molto, mooooolto prima di conoscere la mamma"
Piccoletta: "E come si chiamava?"
Papà: "Boh! Non me lo ricordo"
Piccoletta: "...."
Mamma: "...."
Papà riparatore: "Beh, insomma, non era proprio una fidanzata..."
A quel punto abbiamo deciso che non era il caso di andare oltre.
Il seguito della spiegazione, tra una decina d'anni (almeno).
Mia figlia è nella fase iper-romantica in cui sono immerse molte bambine, che credono che l'amore sia più o meno come ce lo racconta Rapunzel (fase benedetta, dalla quale nessuna bambina che è in noi vorrebbe mai uscire)
Antefatto 2
Crescere, in casa nostra, non è compito facile. Soprattutto quando hai un padre che, compiuti i cinque anni, decide che è ora di iniziare ad essere introdotti alla conoscenza approfondita della musica pop nella sua espressione più geniale, ossia i Beatles. E per fare questo, dotato di CD con i più grandi successi, ogni volta che siamo in macchina scatena una sorta di Sarabanda in cui i piccoli sono chiamati ad indovinare chi è il cantante di Yellow Submarine, piuttosto che di Eleanor Rigby o Hey Jude.
Domenica, in macchina.
Dopo l'immancabile Xmas (War is over), che scatena un pandemonio di "John/Ringo/Paul" sul sedile posteriore, passa in radio Born in the USA (fa Natale anche quello, si sa).
Mamma temeraria: "Tra un po' papà vi introdurrà anche all'arte di questo signore, quando sarete abbastanza grandi. Si chiama Bruce Springsteen, ed è americano. No, lui è vivo, papà lo ha anche conosciuto"
Papà soprapensiero: "Sì, avevo anche l'autografo. Ma l'ho regalato"
Mamma incosciente: "Ah sì?!? E a chi?"
Papà fa una faccia esplicativa
Mamma con chiari istinti suicidi: "Aaaaaah, ok, a una fidanzata"
Papà riparatore: "Era una fan sfegatata..."
Piccoletta con le antenne rizzate: "Ma non era mamma, la tua fidanzata?!?"
Mamma riparatrice: "Ma molto, mooooolto prima di conoscere la mamma"
Piccoletta: "E come si chiamava?"
Papà: "Boh! Non me lo ricordo"
Piccoletta: "...."
Mamma: "...."
Papà riparatore: "Beh, insomma, non era proprio una fidanzata..."
A quel punto abbiamo deciso che non era il caso di andare oltre.
Il seguito della spiegazione, tra una decina d'anni (almeno).
venerdì 17 dicembre 2010
Cara Mattel, ti scrivo
Cara Mattel,
abbiamo già scritto la letterina a Gesù Bambino, anche con qualche post scriptum nel quale aggiungiamo man mano qualche gioco che improvvisamente ci appare irrinunciabile (vedremo, poi, cosa ci porterà Gesù Bambino, e se è il caso di rottamarlo con Babbo Natale, come hanno già fatto i nostri cugini e quasi tutti i nostri amici).
Comunque oggi ti scrivo una lettera da mamma.
E vorrei che questa lettera arrivasse, cara Mattel, direttamente nella casella del Responsabile Prodotto di quella meravigliosa tua creazione chiamata Barbie.
Ora, cara Mattel, sei fortunata. Non sono una di quelle mamme che pensano che Barbie sia un pessimo modello comportamentale per le proprie figlie, semmai pensano che gli adulti siano un pessimo modello comportamentale per le proprie figlie. Non sono una di quelle mamme che si angoscia perché Barbie è troppo magra, o troppo tettuta (adesso, poi, le avete messo pure le mutande, mica come quando eravamo piccole noi).
Quello su cui vorrei farvi riflettere, oltre a certe orrende creazioni assolutamente irrispettose del target di età delle bambine che utilizzano Barbie (temo che ormai non si vada oltre gli 8 anni, ma potrei sbagliarmi), e sto parlando della Barbie con macchina fotografica incorporata che M di Ms segnalò tempo fa, in una conversazione, è il modo in cui avete costruito il prodotto.
Barbie è un prodotto costruito esclusivamente sull'accumulo (fine a se stesso) di... Barbie. Mi spiego meglio. Ho due Barbie, e a questo punto non so che farci. Voglio il cavallo di Barbie? Devo comperare la terza Barbie. Voglio i cagnolini o i gattini? Ecco la quarta Barbie. Voglio il vestito dell'ultimo film? Quinta, sesta, settima Barbie.
Le collezioni dei vestiti di Barbie hanno meno capi, e sono più costose, di una collezione di Armani Privé (e poi ci lamentiamo della sleale concorrenza dei cinesi, anche nella produzione dei vestiti di Barbie). Per non parlare di quello che con un termine non tecnico potremmo chiamare la "costruzione del contesto": vi ricordate la casa di Barbie? Quella di cartone, con l'ascensore di plastica con il filo? Era una cosa semplice, pulita, molto giocabile. Ora costa (visto sul catalogo di un ipermercato) 200 €.
Ecco, la mia critica è proprio questa: Barbie è un gioco poco giocabile. Si è trasformato in uno status symbol (per cui le bambine fanno la conta di quante Barbie hai tu, e quante ne ho io), ma non è un gioco al quale è difficile affezionarsi.
Capisco perfettamente che a voi tutto questo ragionamento non cambi nulla: perché vendere tre gattini di plastica a 20 € quando con la Barbie veterinaria annessa possono essere venduti a 40€?
Ve lo dico io, perché: perché se produceste meno Barbie e più fantasia, più accessori, più giocabilità, vendereste lo stesso, e per più tempo, con una maggiore differenziazione del prodotto.
E' proprio questa mancanza di fantasia, cara Mattel, che mi fa molta tristezza, molto più dei fianchi stretti e delle poppe grandi, della "Magia della Moda", degli occhioni azzurri e verdi e dei completini un po' da zoccola (ma Barbie è sempre stata un po' zoccola, diciamocelo, e poche di noi ne hanno subito pesanti conseguenze nella vita, mi sembra).
Buon Natale, cara Mattel.
Lorenza
P.S. Cara Mattel, un'ultima preghiera. Ken non è mai stato un mostro di mascolinità, il confronto con Big Jim è sempre stato schiacciante, ma Big Jim era più basso di Barbie e questa elementare caratteristica l'ha squalificato per sempre. Ma i Ken in giro in questo momento sono veramente un inno alla singletudine, per la povera Barbie. Per favore, ridateci anche un Ken degno di risvegliare nelle nostre Barbie un qualche istinto primordiale. Grazie.
abbiamo già scritto la letterina a Gesù Bambino, anche con qualche post scriptum nel quale aggiungiamo man mano qualche gioco che improvvisamente ci appare irrinunciabile (vedremo, poi, cosa ci porterà Gesù Bambino, e se è il caso di rottamarlo con Babbo Natale, come hanno già fatto i nostri cugini e quasi tutti i nostri amici).
Comunque oggi ti scrivo una lettera da mamma.
E vorrei che questa lettera arrivasse, cara Mattel, direttamente nella casella del Responsabile Prodotto di quella meravigliosa tua creazione chiamata Barbie.
Ora, cara Mattel, sei fortunata. Non sono una di quelle mamme che pensano che Barbie sia un pessimo modello comportamentale per le proprie figlie, semmai pensano che gli adulti siano un pessimo modello comportamentale per le proprie figlie. Non sono una di quelle mamme che si angoscia perché Barbie è troppo magra, o troppo tettuta (adesso, poi, le avete messo pure le mutande, mica come quando eravamo piccole noi).
Quello su cui vorrei farvi riflettere, oltre a certe orrende creazioni assolutamente irrispettose del target di età delle bambine che utilizzano Barbie (temo che ormai non si vada oltre gli 8 anni, ma potrei sbagliarmi), e sto parlando della Barbie con macchina fotografica incorporata che M di Ms segnalò tempo fa, in una conversazione, è il modo in cui avete costruito il prodotto.
Barbie è un prodotto costruito esclusivamente sull'accumulo (fine a se stesso) di... Barbie. Mi spiego meglio. Ho due Barbie, e a questo punto non so che farci. Voglio il cavallo di Barbie? Devo comperare la terza Barbie. Voglio i cagnolini o i gattini? Ecco la quarta Barbie. Voglio il vestito dell'ultimo film? Quinta, sesta, settima Barbie.
Le collezioni dei vestiti di Barbie hanno meno capi, e sono più costose, di una collezione di Armani Privé (e poi ci lamentiamo della sleale concorrenza dei cinesi, anche nella produzione dei vestiti di Barbie). Per non parlare di quello che con un termine non tecnico potremmo chiamare la "costruzione del contesto": vi ricordate la casa di Barbie? Quella di cartone, con l'ascensore di plastica con il filo? Era una cosa semplice, pulita, molto giocabile. Ora costa (visto sul catalogo di un ipermercato) 200 €.
Ecco, la mia critica è proprio questa: Barbie è un gioco poco giocabile. Si è trasformato in uno status symbol (per cui le bambine fanno la conta di quante Barbie hai tu, e quante ne ho io), ma non è un gioco al quale è difficile affezionarsi.
Capisco perfettamente che a voi tutto questo ragionamento non cambi nulla: perché vendere tre gattini di plastica a 20 € quando con la Barbie veterinaria annessa possono essere venduti a 40€?
Ve lo dico io, perché: perché se produceste meno Barbie e più fantasia, più accessori, più giocabilità, vendereste lo stesso, e per più tempo, con una maggiore differenziazione del prodotto.
E' proprio questa mancanza di fantasia, cara Mattel, che mi fa molta tristezza, molto più dei fianchi stretti e delle poppe grandi, della "Magia della Moda", degli occhioni azzurri e verdi e dei completini un po' da zoccola (ma Barbie è sempre stata un po' zoccola, diciamocelo, e poche di noi ne hanno subito pesanti conseguenze nella vita, mi sembra).
Buon Natale, cara Mattel.
Lorenza
P.S. Cara Mattel, un'ultima preghiera. Ken non è mai stato un mostro di mascolinità, il confronto con Big Jim è sempre stato schiacciante, ma Big Jim era più basso di Barbie e questa elementare caratteristica l'ha squalificato per sempre. Ma i Ken in giro in questo momento sono veramente un inno alla singletudine, per la povera Barbie. Per favore, ridateci anche un Ken degno di risvegliare nelle nostre Barbie un qualche istinto primordiale. Grazie.
mercoledì 15 dicembre 2010
Il giorno sbagliato
Se c'era un giorno sbagliato per andare a Roma, era ieri. E ieri, infatti, la sottoscritta era a Roma.
Ho visto una mattina incredibilmente fredda e meravigliosamente limpida, una Piazza Venezia stranamente tranquilla. Ho visto Roma che è una pancia accogliente, una di quelle signore che tutto hanno visto, e che di nulla si stupiscono più, aspettano solo la prossima messa in scena. Ho visto una madre medusa, che divora e fagocita tutto, e rimane placida e serena e curiosa, cinica e un po' inquietante.
Ho sentito un ragazzetto con un ciuffo di capelli biondi chiedermi: "Scusi, do'ssta Piazza Argentina?" "Sta qui", gli rispondo io, pensando a quanto buffa è la vita, io che conosco tre vie e due piazze in tutta la città, e mi ci perdo sempre. "E do'ssta la manifestazione?" "Non so, non sarà ancora iniziata".
Ho sentito le sirene initerrottamente.
Ho visto la strada del centro sbarrata da due camionette dei Carabinieri, non poter passare, dover fare il giro più lungo. Ho visto l'arroganza del potere chiuso nei suoi palazzi, e quel senso di tristezza e di sopraffazione a cui non mi abituerò mai. Non ho visto camionette dei Carabinieri alla stazione Termini, a proteggere le persone che salivano e scendevano dai treni.
Ho visto camionette dei Carabinieri imbrattate, con le gomme bucate, i resti dell'assalto sparsi per terra, i ragazzi ancora dentro.
Ho visto autoambulanze che giravano indisturbate in un centro vuoto, bello e irreale.
E poi sono arrivata a Milano, alle dieci e venti di sera, e sono andata a chiedere al Bar Centrale una bottiglia di latte. Mi sono sentita rispondere che no, non me la potevano vendere, perché sono una società. E che comunque, considerato che con una bottiglia di latte riempiono 6 bicchieri che vendono a 1,50 € a bicchiere, avrebbe dovuto farmela pagare almeno 7 €. Secondo voi una che va in un bar a chiedere un litro di latte a quell'ora della sera è una tossica che si deve strafare di latte, o è una che il giorno dopo deve preparare una colazione per un bambino?
Ho visto la TV, e tanti che si affrettavano a dire che le violenze erano solo opera dei black bloc e che i manifestanti erano assolutamente pacifici, buoni e angelici. Ci credo, è vero, li ho visti: ho visto le faccie dei ricercatori precari che riempivano il treno la mattina, le facce dei ragazzini che manco sapevano dove andare, le facce degli aquilani senza casa e senza voce.
Ma non posso fare a meno di pensare che, in realtà, abbiamo un sacco di motivi per essere incazzati. Almeno, lasciateci un po' di rabbia.
Ho visto una mattina incredibilmente fredda e meravigliosamente limpida, una Piazza Venezia stranamente tranquilla. Ho visto Roma che è una pancia accogliente, una di quelle signore che tutto hanno visto, e che di nulla si stupiscono più, aspettano solo la prossima messa in scena. Ho visto una madre medusa, che divora e fagocita tutto, e rimane placida e serena e curiosa, cinica e un po' inquietante.
Ho sentito un ragazzetto con un ciuffo di capelli biondi chiedermi: "Scusi, do'ssta Piazza Argentina?" "Sta qui", gli rispondo io, pensando a quanto buffa è la vita, io che conosco tre vie e due piazze in tutta la città, e mi ci perdo sempre. "E do'ssta la manifestazione?" "Non so, non sarà ancora iniziata".
Ho sentito le sirene initerrottamente.
Ho visto la strada del centro sbarrata da due camionette dei Carabinieri, non poter passare, dover fare il giro più lungo. Ho visto l'arroganza del potere chiuso nei suoi palazzi, e quel senso di tristezza e di sopraffazione a cui non mi abituerò mai. Non ho visto camionette dei Carabinieri alla stazione Termini, a proteggere le persone che salivano e scendevano dai treni.
Ho visto camionette dei Carabinieri imbrattate, con le gomme bucate, i resti dell'assalto sparsi per terra, i ragazzi ancora dentro.
Ho visto autoambulanze che giravano indisturbate in un centro vuoto, bello e irreale.
E poi sono arrivata a Milano, alle dieci e venti di sera, e sono andata a chiedere al Bar Centrale una bottiglia di latte. Mi sono sentita rispondere che no, non me la potevano vendere, perché sono una società. E che comunque, considerato che con una bottiglia di latte riempiono 6 bicchieri che vendono a 1,50 € a bicchiere, avrebbe dovuto farmela pagare almeno 7 €. Secondo voi una che va in un bar a chiedere un litro di latte a quell'ora della sera è una tossica che si deve strafare di latte, o è una che il giorno dopo deve preparare una colazione per un bambino?
Ho visto la TV, e tanti che si affrettavano a dire che le violenze erano solo opera dei black bloc e che i manifestanti erano assolutamente pacifici, buoni e angelici. Ci credo, è vero, li ho visti: ho visto le faccie dei ricercatori precari che riempivano il treno la mattina, le facce dei ragazzini che manco sapevano dove andare, le facce degli aquilani senza casa e senza voce.
Ma non posso fare a meno di pensare che, in realtà, abbiamo un sacco di motivi per essere incazzati. Almeno, lasciateci un po' di rabbia.
domenica 12 dicembre 2010
Rapunzel batte Cenerentola 5-0
Rapunzel è l'ultimo film che ho visto al cinema, con i miei bimbi, in un cinema sconosciuto in un'altra città dove i film iniziano 20 minuti dopo l'orario indicato sul giornale. Cenerentola è forse il primo film che ho visto al cinema, accompagnata in un giorno feriale da mia madre (quando si è in 3 e tua madre ti porta da sola al cinema, in genere sono cose che si ricordano).
Alla fine, guardando Rapunzel ho anche capito alcune cose basilari (e molto diseducative) che la retorica della scarpetta ha prodotto nei suoi cinquant'anni di vita.
1. Rapunzel è una principessa. Cenerentola no.
Rapunzel è una principessa, non vuole diventare una principessa. Quindi, finalmente, forse, saremo in grado di rottamare la retorica insulsa del "come diventare principesse". Essere principesse è importante per ogni donna. Diventarlo è un'inutile ed estenuante battaglia contro se stesse.
2. Rapunzel ha uno scopo nella vita, e questo scopo esclude decisamente: trovare un fidanzato, trovare un principe azzurro, sposarsi, diventare ricca, diventare bella, diventare una regina.
Non è il sogno della vita (come quell'antipatica di Tiana che per un'ora e mezza ci ripete che vuole aprire il ristorante che suo padre desiderava tanto, una roba da psicoterapia da quattro soldi), è un sogno piccolo e preciso, che lei sa di poter realizzare. Rapunzel vince per pragmaticità, impegno e sensibilità. E ci ricorda che, una volta realizzato un sogno piccolo, ce ne possiamo sempre inventare un altro.
3. Rapunzel va in giro armata di una padella. Cenerentola ha bisogno di: Fata Madrina, topini, uccellini, cagnolini, zucche, bacchetta magica , vestito e non so cos'altro.
Questa è una delle cose di Cenerentola più diseducative in assoluto, che sta lì a frignare finché non arriva la Fata Madrina. E invece, vale nella vita per lo più la seguente massima: non aspettarti mai che qualcun altro faccia le cose per te, o al posto tuo. E poi è più chic.
4. Rapunzel sta con un ladro spiantato, bello e di belle speranze, che la fa ridere (e la porta in barca). Cenerentola con Principe-Azzurro-scopa-nel-culo.
Come se non bastasse, Flynn va a riprendersela in sella al cavallo bianco, il Principe manda il Granduca. Fate voi.
5. Rapunzel si innamora, Cenerentola si accasa.
Rapunzel è di un romanticismo pazzesco, che a pensarci bene Cenerentola fa la figura della stronza iper-arrivista che frega il Principe alle sorellastre (erano brutte, ma questa non è una scusante), per di più utilizzando questo mezzuccio della scarpetta di cristallo. Rapunzel va in giro a piedi nudi, che sa che tanto non ha bisogno di scarpette di cristallo (vedi al punto 1).
Insomma, Rapunzel mi è piaciuta non tanto per la storia in sé, ma per come è raccontata la sua storia. E' una vera favola, davvero fuori dal tempo e dallo spazio, e la sua eroina è pulita e fresca.
Ah, dimenitcavo: alla fine del film non è neanche più bionda!!
Alla fine, guardando Rapunzel ho anche capito alcune cose basilari (e molto diseducative) che la retorica della scarpetta ha prodotto nei suoi cinquant'anni di vita.
1. Rapunzel è una principessa. Cenerentola no.
Rapunzel è una principessa, non vuole diventare una principessa. Quindi, finalmente, forse, saremo in grado di rottamare la retorica insulsa del "come diventare principesse". Essere principesse è importante per ogni donna. Diventarlo è un'inutile ed estenuante battaglia contro se stesse.
2. Rapunzel ha uno scopo nella vita, e questo scopo esclude decisamente: trovare un fidanzato, trovare un principe azzurro, sposarsi, diventare ricca, diventare bella, diventare una regina.
Non è il sogno della vita (come quell'antipatica di Tiana che per un'ora e mezza ci ripete che vuole aprire il ristorante che suo padre desiderava tanto, una roba da psicoterapia da quattro soldi), è un sogno piccolo e preciso, che lei sa di poter realizzare. Rapunzel vince per pragmaticità, impegno e sensibilità. E ci ricorda che, una volta realizzato un sogno piccolo, ce ne possiamo sempre inventare un altro.
3. Rapunzel va in giro armata di una padella. Cenerentola ha bisogno di: Fata Madrina, topini, uccellini, cagnolini, zucche, bacchetta magica , vestito e non so cos'altro.
Questa è una delle cose di Cenerentola più diseducative in assoluto, che sta lì a frignare finché non arriva la Fata Madrina. E invece, vale nella vita per lo più la seguente massima: non aspettarti mai che qualcun altro faccia le cose per te, o al posto tuo. E poi è più chic.
4. Rapunzel sta con un ladro spiantato, bello e di belle speranze, che la fa ridere (e la porta in barca). Cenerentola con Principe-Azzurro-scopa-nel-culo.
Come se non bastasse, Flynn va a riprendersela in sella al cavallo bianco, il Principe manda il Granduca. Fate voi.
5. Rapunzel si innamora, Cenerentola si accasa.
Rapunzel è di un romanticismo pazzesco, che a pensarci bene Cenerentola fa la figura della stronza iper-arrivista che frega il Principe alle sorellastre (erano brutte, ma questa non è una scusante), per di più utilizzando questo mezzuccio della scarpetta di cristallo. Rapunzel va in giro a piedi nudi, che sa che tanto non ha bisogno di scarpette di cristallo (vedi al punto 1).
Insomma, Rapunzel mi è piaciuta non tanto per la storia in sé, ma per come è raccontata la sua storia. E' una vera favola, davvero fuori dal tempo e dallo spazio, e la sua eroina è pulita e fresca.
Ah, dimenitcavo: alla fine del film non è neanche più bionda!!
mercoledì 8 dicembre 2010
Obbligarsi a non far niente
"Ma se pioverà per tutto il ponte, cosa ci andate a fare sui bricchi dell'Ultima Spiaggia? Ma non potete stare a casa a riposarvi?!?" Così Grande Nonna, in mood funereo (evidentemente causato dalla puntata della sera precedente di Porta a Porta), accoglieva la notizia della decisione di andarcene via, per tutto il ponte molto milanese dell'Immacolata (che per i milanesi è il ponte di Sant'Ambrogio, ma si sa che i milanesi pensano che giri tutto intorno a loro), nonostante le infauste previsioni meteo, l'Ing. in trasferta non ambrosiana, le scadenze natalizie incombenti.
"Andiamo via, così siamo costretti a non far niente", mi sono sentita replicare.
A parte sabato, giornata meravigliosa (che la sottoscritta è riuscita a passare per una buona metà impegnata in un convegno a Genova), le funeste previsioni del meteo si sono rivelate incredibilmente esatte: pioggia domenica, lunedì e, guarda un po', anche martedì.
L'Ing. è dovuto rientrare in ufficio lunedì, lasciando la sottoscritta sui bricchi con i bimbi, a placare le ansie della Suocera e della Grande Nonna che hanno chiamato per assicurarsi che la sottoscritta potesse farcela, e che non fosse troppo in ansia.
E così, chiusi in casa con la stufa accesa in un paesaggio surreale in mezzo alle nuvole, mi sono ritrovata a stare completamente da sola con i miei bimbi per due giorni di fila.
E me la sono goduta da morire.
Mi sono goduta le loro liti, mi sono goduta ripetere a mio figlio di fare i compiti cento volte, dormire con loro nel lettone, sorbirmi le crisi isteriche di Piccoletta che non vuole nessuno in bagno perché deve farsi la coda da sola (e non ci riesce), andare a fare la spesa, sedermi ed aspettare finché il piccolo Ing. non si è allacciato le stringhe delle scarpe da solo, perché tanto non c'è fretta di uscire, gridare perché restino a tavola fino alla fine della cena, portarli al cinema a Genova sotto la pioggia (dandomi dell'incosciente, ad andare in giro con le creature in macchina su quella strada piena di pioggia, vento e tir, ma non diciamolo alla Grande Nonna né tanto meno alla Suocera), andare a prendere l'Ing. a Piazza Principe e sbagliare strada mentre i due se le suonano sul sedile posteriore, in piena enfasi celebrativa dopo la visione di Rapunzel (bellissimo).
Niente casa da sistemare, regali da fare, inviti per cena, pranzo e aperitivo, niente shopping natalizio, niente commissioni tintoria-cartoleria-spesa, niente lavoro in arretrato che, se ti guarda dal tavolo del soggiorno, come fai a non pensarci? Se fossimo rimasti a Milano a riposarci, sarebbe finita sicuramente così, in un vortice di "devo", "dovrei" e "sarebbe meglio se".
Perché qui bisogna fare così: bisogna obbligarsi a non far niente.
Sull'obbligarsi a non pensare a niente, sto ancora lavorando.
"Andiamo via, così siamo costretti a non far niente", mi sono sentita replicare.
A parte sabato, giornata meravigliosa (che la sottoscritta è riuscita a passare per una buona metà impegnata in un convegno a Genova), le funeste previsioni del meteo si sono rivelate incredibilmente esatte: pioggia domenica, lunedì e, guarda un po', anche martedì.
L'Ing. è dovuto rientrare in ufficio lunedì, lasciando la sottoscritta sui bricchi con i bimbi, a placare le ansie della Suocera e della Grande Nonna che hanno chiamato per assicurarsi che la sottoscritta potesse farcela, e che non fosse troppo in ansia.
E così, chiusi in casa con la stufa accesa in un paesaggio surreale in mezzo alle nuvole, mi sono ritrovata a stare completamente da sola con i miei bimbi per due giorni di fila.
E me la sono goduta da morire.
Mi sono goduta le loro liti, mi sono goduta ripetere a mio figlio di fare i compiti cento volte, dormire con loro nel lettone, sorbirmi le crisi isteriche di Piccoletta che non vuole nessuno in bagno perché deve farsi la coda da sola (e non ci riesce), andare a fare la spesa, sedermi ed aspettare finché il piccolo Ing. non si è allacciato le stringhe delle scarpe da solo, perché tanto non c'è fretta di uscire, gridare perché restino a tavola fino alla fine della cena, portarli al cinema a Genova sotto la pioggia (dandomi dell'incosciente, ad andare in giro con le creature in macchina su quella strada piena di pioggia, vento e tir, ma non diciamolo alla Grande Nonna né tanto meno alla Suocera), andare a prendere l'Ing. a Piazza Principe e sbagliare strada mentre i due se le suonano sul sedile posteriore, in piena enfasi celebrativa dopo la visione di Rapunzel (bellissimo).
Niente casa da sistemare, regali da fare, inviti per cena, pranzo e aperitivo, niente shopping natalizio, niente commissioni tintoria-cartoleria-spesa, niente lavoro in arretrato che, se ti guarda dal tavolo del soggiorno, come fai a non pensarci? Se fossimo rimasti a Milano a riposarci, sarebbe finita sicuramente così, in un vortice di "devo", "dovrei" e "sarebbe meglio se".
Perché qui bisogna fare così: bisogna obbligarsi a non far niente.
Sull'obbligarsi a non pensare a niente, sto ancora lavorando.
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