E' settembre, ed è il 2004. Mio figlio ha 18 mesi e, di lui, ho un'immagine nitida, di una sera chiara di fine estate in cui si affaccia alla porta della cucina, mentre sto preparando la cena. Mi dice: "Mamma, io non voglio mangiare, voglio il latte con i biscotti".
E poi, una serie di flash.
La pediatra che dice: "Il bimbo non deve capire che il cibo è un ricatto, sennò è finita"
La maestra del nido che, a dicembre, ci dice: "E poi ho capito che, quando non mangia, non devo viverla come una sconfitta. Perché, se un bimbo non mangia, tu la vivi come una sconfitta", e così scopro che è da settembre che anche a pranzo fa storie.
La Grande Nonna che lo rincorre per casa con il piatto, o che lo fa mangiare davanti alla TV, imboccandolo.
Abbiamo deciso di non dare troppa importanza al cibo, ma ugualmente mio figlio ha capito ben presto che il cibo poteva diventare un potente ricatto.
Eravamo convinti (perché questo è il tipico errore che si fa con i figli primi, quantomeno) che "prima di tutto la disciplina", anche a tavola.
Mi dicevo che in fondo anche mio cugino, fino ai 20 anni, ha cenato a latte e biscotti. Perché mio figlio no?
Molto tempo dopo abbiamo inventato il gioco dell'"indovina gli ingredienti", funziona molto soprattutto con i risotti dell'Ing.
Molti biberon di latte e biscotti sono stati comunque la coccola serale, prima della nanna.
Insomma, siamo andati per tentativi e fallimenti, proprio come in un esperimento scientifico.
Tra alti e bassi, periodi di "buona" e periodi più difficili.
Intanto, sapendo che il cibo non è solo cibo, ho dovuto fare un lungo lavoro dentro di me.
Su quello che voleva dire mio figlio per me.
Su come avevo costruito il suo immaginario dentro di me.
E su come sapevo accogliere il bambino che lui è, e su come non avevo saputo accoglierlo.
Su quello che avevo passato, su quello che avevo sbagliato, su quello che non era proprio tutta colpa mia, ma stava lo stesso in carico a me, perché io avevo in carico lui.
E' stato un lavoro che ho fatto in solitaria, e in solitudine.
Che non è lo stesso, ma a volte anche sì.
E così è nata Piccoletta, abbiamo attraversato la scuola materna con molti pranzi buttati nel cestino, lo abbiamo visto acquisire via via sempre più sicurezza, abbiamo cercato di far capire ai nonni che se anche non mangiava quella sera, avrebbe mangiato un'altra volta (con il risultato che ora i nonni, quando mangia, si profondono in sonori "Braaaaaaaavoooooooo", provocando le ire dell'altra).
Ricordo che a settembre 2008, poco prima che iniziasse la scuola elementare, dopo un'estate difficile, al controllo annuale della pediatra me ne uscii con un: "Sono disposta ad andare dallo psicologo, ma risolviamo questa vicenda del cibo". La pediatra alzò il sopracciglio e mi rispose con una delle sue classiche frasi lapidarie: "L'anoressia fino ai 6 anni è normale" (che fa il paio con: "Ho un paio di ragazzine anoressiche, la colpa è sempre della mamma", detta in altra occasione ma della quale non ho potuto fare a meno di prendere nota)
Tecnicamente, dunque, ai 6 anni mancavano ancora quasi 4 mesi.
Rifeci la mia borsa e continuai.
Ho incontrato Aurora, che si è dimostrata prima una mamma, e poi un'amica, davvero preziosa e discreta.
In effetti non posso proprio dire, ora, che mio figlio non mangi.
Rimane il fatto che è stato messo al tavolo della maestra, sotto osservazione, e che in particolare una maestra lo incalza nella mezz'ora a disposizione che i bimbi hanno per pranzare.
E rimane il fatto che il momento della cena è il momento in cui fa i capricci, se è stanco, se c'è qualcosa che non gli quadra, se ha avuto una giornata difficile. O se è l'odiata baby sitter a preparargli il pranzo o la cena.
"Bimbi, questa sera faccio gli gnocchi"
"No mamma voglio la pasta!"
"No Topo, o la zuppa di zucca o gli gnocchi, non posso preparare per cena tre primi!"
E così, quando è ora di mettersi a tavola, scoppia il pandemonio.
Io mi arrabbio, lo faccio sede davanti al piatto con l'ormai classica: "Non mangiarli, ma stai lì seduto"
Lo vedo piangere silenziosamente.
Lo guardo, davanti al piatto pieno, e sento quell'angoscia e quel senso di impotenza che anche io, a volte, ho provato davanti ad un piatto pieno.
"Dai Topo, vieni in braccio alla mamma"
Lo prendo in braccio, avvicino il piatto.
Chiede il tris, ma di gnocchi non ce ne sono più.
E' successo due sere fa.
Perché i figli - certi figli - ti obbligano a fare i conti con te stessa, e non si accontentano di cibo di plastica, ma ti chiedono un po' di cuore in più. E forse questo pezzo in più bisogna andarselo a prendere da qualche parte, ogni tanto.
E così mi sono accorta or ora che questo post, in fondo, partecipa al blogstorming di questo mese.