giovedì 24 febbraio 2011

La madre, il sacrificio




Quanto ha sacrificato alla famiglia per il suo lavoro?
«Sacrificio è una parola che non conosco».
Allora mettiamola così: quanto ha sofferto la famiglia per il suo lavoro?
«Alle donne è sempre associato il sacrificio... Mia figlia è andata presto ad abitare a Roma, forse per sfuggire alla mia presenza un po' forte. Io ho divorziato e oggi abbiamo delle famiglie un po' fuori dal costume: forse per questo siamo più unite di chiunque altro. Boh!».

Gae Aulenti in un'intervista al Corriere della Sera, 21 Febbraio 2011.

lunedì 21 febbraio 2011

Quote rosa (e dintorni): rivoluzionare il lavoro?


Questo post a blog unificati nasce da un'idea e uno scambio di vedute su Twitter e in Rete tra Monica Cristina Massola, Stefania Boleso, Lorenza Rebuzzini, Manuela Cervetti, Benedetta Gargiulo, Maria Cimarelli, Paola Liberace e Mariangela Ziller.

Dopo uno stralcio di scambi in Rete
"Non basta essere donne per essere candidate, anche questa è strumentalizzazione"
"Mi piacerebbe molto però se chiedendosi 'Chi c'è di bravo?' venissero in mente donne"
"Il punto è: basta questo per introdurre gente a caso (come avverrà in CdA banche) purché donna?"
"Sono sicura che ci siano donne in gamba pronte per assumere ruoli importanti. Come far avere la chance?" "Sempre più mi è chiaro che non si tratta di part-time o di conciliazione: che bisogna rivoluzionare il lavoro, nulla di meno"
"Rivoluzionare il lavoro!! E' l'unica. Ma partendo dalle donne (dalle mamme!), non dall'imitazione degli uomini"
(seguendo su Twitter l'hashtag #rivoluzionareillavoro troverete alcune tracce di frasi che ci hanno fatto riflettere...). 
Abbiamo pensato di scrivere sugli argomenti delle reali opportunità per le donne nel mondo professionale, come rivoluzionare l'organizzazione attuale del lavoro e la legge attualmente in discussione sulle quote rosa nei CdA.

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Questo post è, come potete facilmente intuire, il seguito di quello precedente. Se il mio post dello scorso giovedì era scritto sull'onda della discussione, questo post nasce dallo scambio su Twitter, da un po' di ricerche, da qualche scoperta (poco bella) e da una presa di posizione.

E' in discussione al Senato la proposta di legge "cosiddetta" sulle quote rosa: il Disegno di Legge 2482  porta in realtà il nome di battesimo di: "Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (...) concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati". Tiè - vuoi mettere, come sono più nobili i nomi di battesimo.

"Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti", dice il testo del DdL, pena la decadenza immediata dell'intero CdA - cosa che fin da subito ha sollevato qualche perplessità tra gli Amminisitratori Delegati delle banche, che hanno dovuto affrontare l'evento con sorrisi di circostanza e compite dichiarazioni sull'estremo ritardo in cui l'Italia versa nella parità di genere.

Non si dice, non si fa n.1:
Se le donne al lavoro sono un "male necessario" (come ritiene la stragrande maggioranza degli uomini in Italia, peccato che su questa cosa non si possa fare un sondaggio), le donne nei CdA sono una vera e propria sciagura. O no?


Non si dice, non si fa n.2:
Le quote rosa sono un po' come pagare le tasse, in Italia: va benissimo, ma se lo fai tu va meglio


Così al Senato sono stati presentati 53 emendamenti (52 PdL e 1 IdV) e lo scorso 16 Febbraio Confindustria, ABI e ANIA hanno pubblicamente chiesto di rivedere il testo di legge, introducendo una maggiore gradualità e rendendolo meno coercitivo (decadenza immediata del CdA in caso non sia presente il 30% delle donne).

Ora, su questo passaggio desidererei fermarmi due secondi.

Non si dice, non si fa n.3:
Per amore di gossip vi dico che le signore dell'AIDDA si sono (giustamente) incazzate.


Credo che questa presa di posizione congiunta delle associazioni imprenditoriali, bancarie e assicurative dovrebbe far riflettere tutte le donne sulla qualità e possibilità dell'essere rappresentate, eventualmente promosse e casomai difese, nel mondo imprenditoriale e bancario - credo che debba farci seriamente riflettere sul fatto che allora, se le quote rosa spaventano così tanto, se creano queste reazioni così estreme e un po' scomposte, allora c'è una possibilità vera che possano cambiare qualcosa che finora è stato difeso con le unghie e con i denti. Allora c'è qualcosa che è stato difeso con le unghie e con i denti.

Non si dice, non si fa n.4:
Attendiamo comunque con ansia di conoscere il Marcegaglia-pensiero, in proposito.


Non sono mai stata una pasionaria delle quote rosa: non ho mai creduto che avrebbero cambiato dall'oggi al domani il mondo del lavoro, né tanto meno evitato il butta-fuori delle donne che decidono di fare un figlio (sappiamo tutti che una donna può essere molto peggio di un uomo, in questo campo), o provocato un uragano di part-time.

Ma, devo essere sincera, il fuoco di fila aperto contro le quote rosa mi ha fatto molto riflettere. Mi sono convinta così che, nel 2011, in un Paese con il tasso di occupazione femminile come quello dell'Italia, questa legge minuscola e semplice (persino io l'ho capita, leggendola) rappresenta una reale possibilità - quantomeno, la possibilità di sovvertire delle logiche del potere talmente cristallizzate da temere anche solo che una piccola crepa possa creare un enorme terremoto - quantomeno la possibilità per le donne di affermare apertamente che sì, echeppalle, il potere lo vogliamo pure noi.

Non si dice, non si fa n. 5:
Perché lo vogliamo, il potere, siamo sicure? O stiamo bene così?


Si dice spesso che le donne non siano capaci di fare massa critica, di organizzarsi tra di loro, di sponsorizzarsi a vicenda e questa è, in definitiva, una delle ragioni per le quali non fanno carriera all'interno delle aziende. Mai verità fu più sacrosanta. Ma forse anche questa verità appartiene al tempo passato. Forse le donne stanno iniziando a capire e carpire le logiche della collaborazione e del fare lobbying - e forse questo post ne è un piccolo esempio.

In questo ultimo anno mi è capitato di assistere a lunghe discussioni sulla differenza e sull'efficacia dei cambiamenti top-down (i cambiamenti "dall'alto", come quelli imposti da questa legge, per esempio) sia per quelli bottom-up (come il necessario aumento delle donne che lavorano, senza dover per forza diventare amministratore delegato, ma che costituirebbero una base per realizzare quei cambiamenti tanto necessari nel mondo del lavoro). A me sembra che questa [delle quote rosa, della partecipazione delle donne al mercato del lavoro] sia la classica situazione nella quale entrambi i cambiamenti sono necessari: per avere donne davvero preparate ad entrare nei CdA è necessario avere una "massa critica" di donne che lavorano. Per avere una "massa critica" di donne che lavorano è necessario cambiare regole e cultura, e questo lo possono fare solo le persone che hanno il potere (e il coraggio) di farlo.

Per salvare questa legge calata dall'alto, Lella Golfo e Alessia Mosca (le due prime firmatarie del DdL) hanno chiesto un aiuto "dal basso": fare pressione con un'email al presidente del Senato e al presidente della Commissione Finanze per chiederne l'approvazione del DdL. La trovate sul sito di Alessia Mosca.

Non sarà una rivoluzione del lavoro, ma servirà a rivoluzionare il lavoro.

P.S. E' stato anche detto che non ci sono donne abbastanza preparate da entrare nei CdA. La Fondazione Belisario ha preparato un database con oltre 1000 curricula eccellenti al femminile. Che so, nel caso Corrado Passera o Cesare Geronzi ne avessero bisogno.

giovedì 17 febbraio 2011

Cinque minuti, qualche domanda, discutiamone qui (di donne, quote rosa e carriera in azienda)


stavo discutendo sulle quote rosa:sarebbe bello se pensando a gente brava anche in politica venissero in mente donne, non in quanto tali ma in quanto brave.
Nei miei cinque minuti di pausa su Facebook sono incappata in questo post di Maria.

Orbene, questo post dall'apparenza innocua ha scatenato in realtà dentro di me una serie di domande e di reazioni probabilmente dovute a quello che vedo e osservo intorno a me.

Le domande sono le solite, trite e ritrite, ma vorrei vedere se riusciamo a dare qualche nuova risposta:
- le donne sono brave ma hanno un problema di riconoscimento del fatto che sono brave. Per lo più (e non sto facendo un discorso maschilista, ma un discorso, come dire "di fatto") un uomo non considera mai una donna come potenziale partner, ma come la segretaria, quella che fa le cose. Le donne si ritagliano grossi ruoli di prestigio non riconosciuto o del tutto interno all'azienda, con poca visibilità ma grande prestigio personale. E quando poi si viene al dunque, è difficile che "facciano fuori" l'uomo in questione. Per dire, l'ha fatto Angela Merkel con Helmut Kohl, e per un po' son rimasti tutti scioccati (o come cavolo si scrive).

- Perché forse il problema sta lì: è più facile per un uomo accettare di passare il testimone (a malincuore) a un altro uomo? O sono gli uomini capaci di prenderselo e le donne no?

- Quanto le donne sanno stare al gioco e quanto invece, non scelgono altre strade? Per esempio, quante donne che scelgono la libera professione o di fare le imprenditrici sarebbero state altrettanto "utili" in azienda ma, arrivate a un certo punto, hanno deciso di "svicolare" (per noia, per stanchezza, per mancanza di riconoscimenti)?

- Non è che continuiamo a ragionare sulle quote rosa in termini di potere "al maschile"? Siamo sicure che le donne vogliono questo (perché ogni tanto mi pare un po' il ragionamento dell'"armiamoci e partite")? Ma dove sono tutte queste donne volenterose desiderose di cambiare l'Italia e fatte fuori da un sistema maschilista?

Della serie: dietro a un grande uomo c'è sempre una grande donna. E ok. Obama non sarebbe presidente se non ci fosse stata Michelle. Ma Michelle, cara, TU volevi fare il presidente degli Stati Uniti, diciamocelo (e questa cosa non me la toglierà mai nessuno dalla testa).

- Come si fa a uscire dal binomio donna/brava, un binomio che per gli uomini di fatto non esiste? (UnO è bravo o è incapace, indipendentemente dall'essere maschio, è proprio un altro approccio alla questione. Quando avremo una presidentessa del consiglio ultrasettantenne e uno stuolo di toy-boy a fare i ministri delle pari opportunità, ne riparleremo)

Ecco, mi rendo conto, come dire, di non aver sollevato questioni da poco.
I miei cinque minuti di pausa sono finiti, a voi la parola.

mercoledì 9 febbraio 2011

Guarda fuori dalla finestra: paesaggi metropolitani

"... E quindi questa è la differenza tra esseri viventi e esseri non viventi. Poi il compito diceva: guarda fuori dalla finestra, ed elenca tre esseri viventi e tre esseri non viventi che vedi dalla tua finestra"

"E tu cosa hai scritto, topo?"

"Dunque, tra gli esseri non viventi il vaso delle piante, la chiesa e la macchina"

"E tra gli esseri viventi?"

"Una pianta, un vecchio signore e un piccione"

Gli esseri viventi connotano decisamente il paesaggio come milanese.

domenica 6 febbraio 2011

Come tu mi vuoi

Continuare ad essere malata in tempi non sospetti (e soprattutto durante weekend in cui si potrebbe fare di tutto, a parte stare in casa) mi permette di:
a. dormire sonoramente per tre ore filate nel pomeriggio, senza neanche accorgermi che la truppa nel frattempo è uscita e rientrata;
b. lasciare bimbi e Ing. in santa pace in casa senza doverli coinvolgere in fantasmagorici giri metropolitani o in esorbitanti iniziative (in questo preciso istante sono intenti a seminare basilico e nonsoche nel bagno di casa);
c. sorbirmi una serie di film o programmi in streaming che altrimenti non avrei avuto il tempo di vedere.

E così mi è capitato tra le mani un film che francamente, in tempi non sospetti, avrei buttato direttamente giù dalla finestra (ma d'altronde la mia metamorfosi cinematografica è stata definitivamente consacrata con la scelta di andare a vedere Checco Zalone, invece di Clint Eastwood, nell'unico sabato con uscita-cinema-da-grandi a disposizione. Al che l'Ing. ha forse iniziato a rimpiangere i bei tempi in cui lo sottoponevo alle visioni di  tremendi mattoni cinematografici iraniani). A mio ulteriore discredito posso dire che il film in questione stava tra Bastardi senza Gloria e The Dark Knight. Ma capite anche voi che, se una continua ad ammalarsi, un motivo ci sarà e di certo né Tarantino né Christopher Nolan contribuiscono ad aumentare le difese immunitarie.

E così ho infilato nel lettore DVD Come tu mi vuoi, che mi ricorda il titolo di una canzone - ma non so quale. Ho scoperto un film con Nicolas Vaporidis e Cristiana Capotondi, alla quale tocca in sorte il ruolo di bruttona intellettuale. Giada (interpretato dalla Capotondi, brava) è studentessa in sociologia con il pallino della comunicazione di massa e la mercificazione del corpo femminile. E' brutta, piena di brufoli, con i baffi, e sciatta. Insomma, il perfetto stereotipo della secchiona intellettuale. Messa alle strette dalla crisi economica, inizia a lavorare e a dare ripetizioni a Riccardo (N. Vaporidis), incarnazione di quel mondo che Giada disprezza e critica. La tesi di Fiamma, amica di Riccardo, è che anche l'integerrima Giada, se potesse appartenere al quel mondo, non lo disprezzerebbe affatto.

E' un film-favola (la trasformazione da brutto anatroccolo a meravigliosa creatura), ma è anche un film che vuole far riflettere (sena riuscire a dare una propria chiave di lettura) sull'importanza dell'immagine e sull'uso che le donne possono e devono fare del proprio corpo, in uno strano mix on/off di stereotipi e di superamento degli stereotipi.

Ok, siamo stufe dello stereotipo vetero-femminista che vuole le donne impegnate, intelligenti, e brutte. Vero è, comunque, che se una passa la vita a studiare non sarà mai 'sto gran pezzo di gnocca... Se non altro perché non le interessa. E' un male? E' un bene? Ma essere socialmente allettanti è un aiuto anche per la carriera. Ma ancora: dove sta il sottile limite tra "stare bene con se stessi" e "essere socialmente accettabili?"

Viene però fuori, e bene, la pressione sociale che ci vuole in un determinato modo. Questo mi sembra uno degli aspetti più interessanti del film, ossia: quanto una persona è disposta a rinunciare ai propri principi per conformarsi a ciò che la circonda, o per inseguire l'amore (o presunto tale)? E soprattutto: in un mondo nel quale la comunicazione è basata sull'immagine, non è parossistico presentare modelli "brutti da vedere"? Come se ne esce?

Mi rendo conto che tutte queste possono essere bollate come questioni adolescenziali (e in effetti credo che il target sia proprio quello), ma se mia figlia adolescente prendesse questo film come modello non ne sarei molto contenta, in effetti: la conclusione è un po' troppo semplicistica e il paradigma vincente è (appunto) quello della bellezza, con la quale si conquista l'accettazione sociale e l'amore. E tuttavia mi rendo conto che non sono affatto questioni adolescenziali, ma sono questioni con le quali molte donne si scontrano (ci scontriamo, inutile far finta di essere superiore, questo film ha intercettato una serie di pensieri di questi ultimi mesi) tutti i giorni.

L'inevitabile gap tra l'immagine che uno ha di sé è quello che viene restituito dall'esterno, a pezzi e puzzle, è un interrogativo che a tratti riaffiora in modo potente nella mia vita. Negli anni, ho imparato con molta fatica a  non preoccuparmi di "quello che dice la gente", tanto che mi sono accorta in alcuni momenti di sembrare molto superiore a tutto, mentre in effetti non lo sono affatto (c'è da dire che in questo senso mettersi a scrivere un blog è una terapia potente). Ho sempre grandemente apprezzato quelle donne che "se ne fregano", che sanno essere autenticamente al di sopra di convenzioni e schemi, sulle quali moda e firme non hanno nessun tipo di appeal ma che hanno un loro inconfondibile stile - e ho sempre grandemente invidiato quelle donne che hanno sempre la borsa all'ultima moda e quei meravigliosi sandali da 400 euro che io non posso permettermi (e che anche se potessi, probabilmente spenderei in altro modo).

Probabilmente la soluzione sta proprio lì, nel trovare quello che ci sta addosso veramente sapendo che è importante ma che non è tutto. Per quanto mi riguarda, in questo preciso istante, la soluzione sta nel riappropriarmi della capacità di fare shopping per me stessa senza finire da H&M o da Zara, raccogliendo pantaloni e camicie senza neanche provarli, per un totale di 30 minuti netti.

P.S. Vi segnalo una scena topica, però: quando appendono davanti alla camera di Giada una mega affissione con un sedere gigante di donna, pubblicità per una marca di slip (vi ricorda qualcosa?)
P.P.S. La canzone è quella di Mina, comunque